venerdì 18 novembre 2011

Lupus Eritematoso Sistemico e Malattie Autoimmuni: una revisione dei modelli di trattamento attraverso la psicologia clinica e la psicoterapia

Nella corso della propria carriera possono, direi devono, avvenire profondi ripensamenti rispetto alla comprensione dei temi vitali portati dai pazienti. Talvolta, a posteriori, si ha perfino la sensazione di dover chiedere scusa per la propria cecità.
E' dal 1997 che non scrivo nulla sul tema della Malattie Autoimmuni e del Lupus Eritematoso Sistemico (LES) pur avendo continuato a seguire pazienti con queste patologie.
Da tempo, sulle ali dell'insoddisfazione e della curiosità, sto ripensando cose scritte anni fa, quando la formazione e la susseguente pratica professionale si basava su paradigmi del sapere scientifico diversi da quelli attuali. Il riduzionismo, il rapporto di causa effetto, il retaggio cartesiano della separazione mente/corpo dettavano il nostro modo di pensare e di agire, mentre negli ultimi anni lasciavano opportunamente spazio al paradigma della complessità, delle interazioni, delle reti.
Nel 1997 pubblicavo con Alessandra De Coro, Professore Ordinario di Psicologia Dinamica a Roma "La Sapienza",  uno scritto dal titolo: “Per un approccio dinamico-relazionale al problema dei disturbi psicosomatici: Il Lupus Eritematoso Sistemico”.
Il termine stesso “psicosomatico” è da considerarsi obsoleto in quanto figlio del riduzionismo che vede la mente come un'entità separata dal corpo, per di più “psicosomatico” per molti pazienti ha l'effetto di comunicare una sorta di loro “responsabilità”, seppur sul piano inconscio, nello svilupparsi e nel perdurare di una malattia.
Le metafore da noi utilizzate per descrivere la situazione dinamico relazionale riscontrata in molti pazienti con il LES sembravano dipingere rapporti ancestrali con madri perfezioniste e rigide, tanto da determinare che i pazienti attaccassero il proprio Sé così come lo aveva percepito attaccato dalla propria "madre". 
Ovviamente erano solo metafore che tentavano di dare spiegazione di fenomeni che osservavo clinicamente nelle pazienti, allora non avevo altre parole per tentare di descrivere ciò che osservavo. Tuttavia i pazienti, non tanto quelli che seguono un percorso psicoterapeutico, dove c'è modo di contestualizzare le affermazioni in una relazione significativa, quanto piuttosto coloro che “leggono” una cosa del genere possono trarre impressioni diverse:
  • La madre non viene pensata come metafora ma identificata con una persona in carne ed ossa, il che diventa fuorviante perchè pensare alla propria madre in questi termini può avere il valore euristico pressochè vicino a quello dell'oroscopo, ovvero nullo, dato che tali affermazioni sono talmente generiche da potersi adattare un po' a tutti;
  • La malattia diventa una responsabilità individuale, tuttalpiù familiare, distribuendo insensatamente rabbia e sensi di colpa tra sé ed i propri cari, nonché rabbia verso lo Psicologo Psicoterapeuta di turno... “Non solo ho una malattia cronica che mi spaventa e mi può devastare ma tu in qualche modo mi fai capire che è colpa mia o di mia madre”.
Una paziente statunitense definì queste metafore cliniche “bedtime stories”, quella donna non saprà mai quanto mi ha aiutato a riflettere.
Ovviamente si tratta di effetti comunicativi non voluti, però sappiamo bene che la comunicazione si misura sul ricevente...
Non a caso il supporto psicologico clinico e psicoterapeutico è ancora sottoutilizzato nel trattamento dei disturbi cronici in generale e delle malattie autoimmuni in particolare, nonostante l'evidenza della letteratura scientifica che delinea come fondamentale un approccio completo ed integrato che si prenda cura delle situazioni di vita del paziente, della quantità e qualità dei tipi di stress a cui la persona è chiamata a far fronte nella gestione della propria vita e della malattia autoimmune e della capacità individuale e della rete affettiva e sociale di gestire e regolare lo stress.
Questa sottoutilizzazione penso sia dovuta in parte all'errato modo di comunicare della comunità psicologico clinica e psicoterapeutica verso i pazienti, in parte all'atteggiamento obsoleto e riduzionista di molti medici curanti che sembrano limitarsi, nel migliore dei casi, a riferire un paziente allo psicologo clinico solo quando si manifestino dei chiari sintomi psicopatologici o comunque una personalità difficile, in una parola pazienti poco gestibili nella ambito delle procedure standard previste dalla liturgia medica: in questi casi il paziente si può sentire “scaricato” e non si rivolge allo psicologo clinico oppure lo fa comprensibilmente carico di rabbia.
Recentemente mi è capitato di accompagnare un familiare stretto in un noto centro specializzato per la cura del LES (per pietà non faccio nomi) ed ancora nel terzo millennio trovarmi di fronte a due specializzande che, come scolarette, ridevano tra loro per un pretesto scemo loro mentre la paziente raccontava la sua storia, salvo poi prendere in mano il dorso della mano della paziente e cominciare a parlare tra loro di questo e quest'altro segno clinico, come se la mano fosse un oggetto a parte dalla sua legittima proprietaria, che in quel momento poteva anche sentirsi angosciata dalla discussione che avveniva sui segni di malattia evidenziati dalla sua mano, come se lei non fosse presente. Nell'intervista clinica non una sola domanda su come la paziente vive, l'alimentazione, l'attività fisica, i fattori di stress, il suo rapporto con la la malattia e la corretta assunzione dei farmaci, solo il solito “come si è manifestata la malattia? cosa prende? e da quanto? ”
I paradigmi scientifici in costante evoluzione ci aiutano a spiegare meglio i fenomeni che abbiamo sempre osservato, nella speranza che questa migliore comprensione possa elevare gli standard di intervento e nello stesso tempo favorire una comunicazione più chiara e più fiduciaria con i pazienti e con le altre figure sanitarie.
L'insoddisfazione per questi modelli esplicativi era ben presente anche nel 2000 quando vedevamo nei pazienti con il LES strutture relazionali che differivano da quelli di pazienti senza patologie ma anche da pazienti con depressione  (Mucelli ed altri: Prototipi relazionali, modelli di attaccamento e funzione autoregolativa del sé in patologie autoimmuni. IV Congresso Italiano Psicologia della salute Orvieto, 21-23 Settembre 2000)
Oggi sappiamo che il sistema immunitario (SI) è collegato in rete con il sistema nervoso (SN) ed il sistema endocrino (SE), fino a costituire un unico sistema biologico operante in interazione con l'ambiente (F. Bottaccioli, Mutamenti nelle basi delle scienze, Ed. Tecniche Nuove, 2011).
Sulle cellule immunitarie sono collocati recettori per le principali molecole prodotte dal cervello, mentre la cellula immunitaria stessa produce peptidi neuroendocrini, ciò significa che SI, SN ed SE comunicano tra loro utilizzando un complesso sistema di segnali veicolati attraverso delle molecole che condividono.
Dedicandomi sin dalla fine degli anni '70 del secolo scorso allo studio della psicosomatica, come allora chiamavamo la disciplina che oggi può essere meglio definita come psiconeuroendocrinoimmunologia, o meglio il suo acronimo PNEI, da subito provai insoddisfazione per le spiegazioni causali, ovvero la mente che causa effetti nel corpo oppure il corpo che causa effetti nella mente. Le conseguenze per il trattamento erano importanti, perchè non si sapeva se indirizzare maggiormente gli aspetti di personalità e dinamico relazionali oppure gli aspetti di reazione ad una malattia cronica infida e potenzialmente invalidante come il LES. Ovviamente dal punto di vista clinico erano validi entrambi gli aspetti, da affiancare in un gioco di figura/sfondo seguendo le esigenze primarie dei pazienti, però il modello esplicativo rimaneva insoddisfacente.
Oggi sappiamo di vedere gli stessi fenomeni con occhiali diversi, quelli della psicologia clinica e quelli dell'immunologia. Proprio lo studio delle malattie autoimmuni ha aperto la porta a mettere in dubbio la netta dicotomia tra Sé e non Sé. 
Il Danger Model (The Danger Model: a renewed sense of self. Pubblicato in Science, 296, 301-305, 2002) prevede infatti che “le cellule addette alla presentazione dell'antigene, per poter attivare la risposta immunitaria, debbono essere co-stimolate da segnali cellulari di pericolo endogeni, emessi cioè da un contesto circostante che indichi la presenza, ad esempio, di cellule stressate, danneggiate o infette. Tale modello ipotizza un processo discriminatorio in cui il concetto di “estraneità” dei costituenti non è più la conditio sine qua non dell'attivazione della risposta immune”.
E ancora, “quasi tutti i peptidi umani possiedono motivi batterici potenzialmente immunogenici"  (F. Bottacioli, ibidem). E' difficile che in una proteina umana non siano presenti elementi batterici, ciò nonostante le proteine non vengono attaccate dal SI, e questo mette in crisi la distinzione netta tra sé e non sé.
Se è vero che il SI non attacca sempre, ma solo a certe condizioni, le cellule riconosciute come estranee all'organismo,  è vero d'altra parte che può attaccare anche cellule del Sé non solo in condizione di malattia autoimmune: l'attacco anticorpale infatti è diretto anche verso le cellule del Sé  danneggiate e stressate, come abbiamo visto nel “Danger Model”, ma quest'attacco può avvenire anche nell'ambito di normali e fisiologici sistemi di autoregolazione, mediati dai complessi scambi di segnali, quasi “linguistici” , che avvengono tra le differenti componenti del SI.
Niels Jerne, immunologo e premio Nobel per la medicina 1984, parla di “grammatica” del sistema Immunitario per descriverne la complessità di funzionamento e la capacità di apprendere del SI, un vero e proprio sistema cognitivo che secondo Jerne, funzionava in totale separazione dal cervello. Oggi invece sappiamo come dicevo sopra, che SI e SN sono in continua interazione attraverso recettori e sostanze neurormonali.
Niels Jerne nelle sue ricerche ha dimostrato come una molecola anticorpale possa essere riconosciuta essa stessa come un antigene da altri anticorpi, detti auto-anticorpi idiotipi. In altre parole, l'antigene, viene ricopiato dal nostro SI, gli auto-anticorpi idiotipi (idiotipi= Idios, proprio typus= tipo, esemplare, sta ad indicare autoanticorpi “somiglianti” all'antigene) ne costituirebbero una sorta di specchio, in maniera tale da tenere pronto un attacco verso di esso.
Attraverso la produzione di autoanticorpi secondo Jerne si mantiene un equilibrio dinamico del sistema immunitario, pronto ad intervenire contro agenti esterni come proteine, virus o batteri mentre mantiene un “precario equilibrio verso gli altri normali costituenti del Sé del nostro corpo” (The generative grammar of the immune system, Nobel Lecture, 8 December 1984 ).
Rimane ancora oggetto d'indagine come questo “equilibrio precario” si disregoli nella malattia autoimmune, come l'attacco di autoanticorpi verso i componenti dell'organismo stesso diventi sistematico, non reversibile come invece sono i normali fenomeni autoimmuni che, viceversa, contribuiscono alla regolazione e alla generatività della varietà di anticorpi di cui abbiamo bisogno.
In merito esistono delle fondate ipotesi cliniche, come quelle del carico “allostatico”, ovvero la condizione in cui l'organismo (SI, SN ed SE) devono rispondere ad una cronica situazione di stress. In questo caso la risposta sistemica dell'organismo, nata per fronteggiare uno stress acuto, nel far fronte allo stress cronico può gravemente disregolare il proprio funzionamento, dando luogo a fenomeni infiammatori, malattie autoimmuni, depressione.
Ecco quindi che ciò che definivamo “madre perfezionista e richiedente” null'altro era che un rozza metafora del complesso carico allostatico deteminato da: alimentazione inappropriata, allergie, infezioni, inquinanti ambientali, fumo ed altri agenti intossicanti, assunzione inappropriata di farmaci ormonali, stress situazionale, stress cronico, difficoltà di far fronte alla proprie aspettative, difficoltà di far fronte ai compiti assegnati dall'esterno (lavoro, gestione delle relazioni affettive, fasi vitali critiche, traumi).
La psicoterapia interviene nella mediazione di questi fattori ed aumenta la capacità dell'individuo di farvi fronte, con importati effetti sul sistema nervoso, immunitario ed endocrino.
Torneremo sul tema del carico allostatico, del ruolo dell'infiammazione nelle malattie croniche e sul funzionamento della psicoterapia ...































giovedì 20 ottobre 2011

Laura, l'eroina, le torri gemelle ed il guardiano del tempo...

"Laura non ha piu' voglia di vivere. Quando si presenta alla seduta parla con un filo di voce, e' curva, ha le mani ed il viso sporchi. Il fumo della sigaretta che passivamente tiene tra le mani le corre lungo la mano e poi su per il braccio, come se contribuisse a sporcare sempre di piu' la sua persona.
Laura fa uso di eroina da 12 anni, da otto anni e' sieropositiva.
E' di ritorno da un viaggio in India, durante il quale ha cercato tutti i modi possibili per degradarsi. E' impressionante come nelle sue condizioni fisiche e mentali abbia potuto resistere agli assalti del tifo e dell'epatite, dei quali soffre ancora i postumi.
Laura viene accompagnata dalla sorella di qualche anno piu' giovane, sposata, con un figlio ed una vita normale. Le prime parole che Laura pronuncia sono paradossalmente un atto di affetto e di protezione nei confronti della sorella: "anche mia sorella ha sofferto molto, e' stata anoressica per tanti anni, solo io pero' ho avuto il coraggio di testimoniare fino in fondo tutte le cose che nella nostra famiglia non sono mai andate!".
La sorella mi dice che le avevano fatto il mio nome e che quindi aveva invitato Laura a rivolgersi a me per un aiuto psicologico, visto che finora qui nel servizio per le tossicodipendenze aveva preso solo il metadone, con scarsissimi risultati. Nel nostro lavoro incontriamo situazioni come questa, che ci sbattono in faccia il problema del limite, dell'impotenza, della morte, intesa come il grande guardiano del tempo,  ma anche di quella piccola morte quotidiana che e' scritta in ogni atto di vita che noi compiamo, e quando e' compiuto e' passato, morto.
Ogni piega del volto di Laura è una narrazione del grande guardiano del tempo, la morte.
Lo sguardo di Laura mi proietta nel buio della mia anima, in braccio ai miei fantasmi, la malattia, la perdita, l'abbandono.
Saper leggere e comprendere queste reazioni che avvengono dentro di se', ovvero,  in gergo tecnico, "l'analisi del controtransfert" e' lo strumento principale per poter effettuare una diagnosi dei fantasmi che abitano sommessamente e nascostamente guidano i pensieri del paziente, le sue scelte, le sue relazioni ed i suoi comportamenti.
Nascondere a me stesso e "superare" razionalmente l'impatto devastante che una persona come Laura aveva su di me sarebbe stato equivalente e rinunciare a capire il senso simbolico, profondo, inconscio, di cio' che Laura mi stava comunicando. Il lavoro clinico va affrontato senza ipocrisie, con il coraggio della trasparenza verso i propri sentimenti e verso i propri stati emozionali, solo cosi', con l'onesta' verso se stessi, si puo provare ad aiutare il paziente ad essere trasparente nei sui stessi confronti, restituendogli e rispecchiando le latri del Sè che mette in gioco nella relazione terapeutica. 
Il messaggio di Laura era evidentemente di disperazione. Stava distruggendo e negando se stessa, provava ribrezzo verso di se' e verso la sua vita. Laura, generando in me questi stessi sentimenti, mi ha subito fatto capire quanto poco contasse per lei vivere, visto il ribrezzo che provava verso il suo corpo malato e la sua mente depressa, seguendo la narrazione scissa che la paziente fa di corpo e mente come entità separate e giustapposte.
Qui ci vorrebbe il dipartimento di salute mentale, l'unita' operativa di terzo livello per l'aids, i pompieri, la guardia nazionale, l'esercito, il buon Dio in persona! La mia mente annaspa in cerca di un aiuto improbabile, specchio dei fantasmi di Laura che sembrano agire così in profondo dentro di me in modo tale da comunicare il suo non aspettarsi mai un aiuto sufficientemente adeguato al suo bisogno.
La paziente inizia a parlare di se' descrivendo la sua situazione, mentre io, oramai enfio di impotenza, mi chiedo perché continuo ad occuparmi di casi disperati, di tossicomani con i quali si rischia di non vedere mai un risultato.
Penso alla mia montagna e vedo i miei cani che corrono liberi e veloci, inebriati dagli odori e dall'aria talmente fredda, tersa e pungente da far male al petto.
Mi scopro ad odiare la citta', il rumore, le macchine, tutto cio' che trovo "innaturale". Comincio ad articolare tutta una gamma di pensieri fobici, cha hanno tutti il tema centrale di sentirmi chiuso, come mi sentivo chiuso quando ero a New York, citta' maleodorante, fetidamente incazzata e soffocante con i suoi cumuli d'immondizia, di rifuti urbani ed umani ed i suoi grattacieli, monumenti al trionfo dell'insensatezza, della presunzione umana.
In quel viaggio c'è stato un momento in cui non avrei voluto uscire dalla mia stanza, sapevo che la citta' mi avrebbe aggredito alla gola facendola bruciare con la sua aria chimicamente artefatta, mi avrebbe tolto l'aria e la vista del cielo con i suoi grattacieli, mi avrebbe costretto a rivolgere lo sgurdo verso il basso e guardare la merda umana circolante sui marciapiedi, purtroppo ed inevitabilmente avvertendo anche me come parte di essa.
Laura era in qualche modo un prodotto di quella forma di civilta' che abita i miei incubi peggiori, e per questo mi costringeva a specchiarmi nella mia stessa merda ostentando la sua. Avrei voluto togliere gli occhi per non vedere, annebbiare la mente per non pensare, suonarmi in testa una sinfonia a tutto volume, forse la pastorale, per non sentire le parole di degrado e sofferenza che Laura lasciava fluire su di me, piano piano contagiandomi  e sporcandomi, inquinandomi con i suoi fantasmi e con il suo mondo interno corrotto, distrutto, non piu' vitale.
Con Laura non potevo evitare tutto questo, mi sentivo come un cucciolo di cane che viene sbattuto puntivamente dal padrone con vigore dentro la sua stessa pipi', gli sembra ingiusto e non puo' fare nulla per evitarlo. Ma sono io stesso a non volerlo evitare, anzi a cercare nel mio lavoro un contatto con parti cosi' profonde degli altri e di me.
Qualsiasi altra professione mi avrebbe consentito di vagabondare negli strati piu' superficiali della mente e delle relazioni con gli altri, sempre spaventato della discesa nel profondo di me stesso, maniacalmente impegnato a fare cose, ad agitarmi insensatamente nel mondo esterno, realizzando cosi' una perpetua fuga.
Quindi sono grato a Laura, quando mi fa ricordare la mia paura della morte che mi fa lottare con il sonno invece che abbandonarmi ad esso sin da quando ero un piccolo bambino e mi scusavo con Gesu', che non si offendesse, ma io proprio non volevo stare nel cielo con Lui e tutti gli angeli, stavo tanto bene sulla terra con il mio papa' e la mia mamma, e lo pregavo di lasciarmi qui.
Laura, e tutti i pazienti gravi come lei, hanno il potere di fecondare.
Mi stava aiutando ad affrontare ed elaborare una delle mie paure fondamentali. Ad un tratto e' chiaro come non sia lei a fare ribrezzo, ma le mie parti spaventate, timorose, incapaci di uscire allo scoperto. Comunque, se Laura aiuta me, veramente non so come fare per aiutare lei.
Non puo' essere completamente devitalizzato e degradato il mondo interno di una persona che riesce comunque a fecondarti, comunicando con te in maniera cosi' violenta ed esplicita.
A questo punto mi vengono in mente le parole di Carl Gustav Jung, che definiva il sintomo psichiatrico come melma e diamante alla stesso tempo. Man mano che la paziente continuava la descrizione del proprio degrado, pensavo a come la cultura occidentale, fondata sul pensiero aristotelico, sulla logica del pensiero razionale e dividente, categorizzante, ci renda difficoltoso riconoscere gli opposti presenti in ogni cosa. Riuscivo a cogliere il messaggio profondamente vitale, di estrema richiesta d'aiuto, veicolato proprio da quel presentarsi in condizioni misere.
Per Laura inconsciamente era un po' un giocarsi il tutto per tutto: o essere respinta per il proprio presentarsi ripugnante e problematica, ripetendo cosi' il tema relazionale psicotico che ha contraddistinto la storia di tutta la sua esistenza, oppure sperare che la richiesta d'aiuto veicolata attraverso il totale abbandono di se' venisse colta al di la' di una apparenza respingente.
In realta' richieste d'aiuto cosi' totali, cosi' costringenti, quasi manipolatorie, inducono nello Psicoterapeuta fantasie del tipo "...e' talmente a pezzi che non ci si puo' non occupare di lei, rischia perfino il suicidio....". Tra l'altro molti di questi pazienti vivono in una dimensione in cui il pensiero simbolico porterebbe a galla componenti molto dolorose dell'esistenza e percio' si sentono obbligati ad agire tutto sul mondo esterno, sul mondo delle cose concrete per poter sopportare l'angoscia interna.
In altre parole, quando parliamo di fantasie di suicidio comunicate dal paziente per coinvolgere lo Psicoterapeuta in una presa in carico totalizzante del se' malato, non abbiamo alcuna garanzia che tali fantasie non possano essere realizzate, giocate nella vita (in inglese to play significa sia giocare che recitare), rappresentate nel mondo come se il mondo fosse una sorta di teatro messo li' apposta per contenere le rappresentazioni del mondo interno. Potremmo assistere cosi' a farse, drammi ma piu' spesso a tragedie, in cui il paziente impersona una o piu' parti e costringe, con la forza del proprio impatto emozionale, chi gli sta vicino a giocare le parti della propria matrice relazionale
I temi variano, cosi' nel caso di Laura abbiamo una madre che abbandona, un padre assente ed impotente che non riesce a salvare la figlia dalle grinfie della madre matrigna, l'eroina che consente di ottundere la testa e lenire cosi' il dolore della depressione ed una serie di figure materne sostitutive che dovrebbero giocare il ruolo di chi riesce trionfalmente a riparare i guasti lasciati da una madre negativa ed abbandonica.
Naturalmente il tema centrale della tragedia di Laura e' costituito dal fallimento ripetitivo di tutte queste figure materne sostitutive, che non daranno mai abbastanza, non riusciranno mai a riparare la mancanza di cure materne, il senso di abbandono, non riusciranno mai a sfatare in Laura la convinzione che se lei e' stata abbandonata e' senz'altro perche' doveva essere indegna della propria mamma, che per un bambino è definitoriamente "buona".
Cosi' Laura con il suo degrado fisico e mentale non fa che perpetuare una testimonianza, non fa che celebrare e ricelebrare cio' che e' gia' avvenuto, l'essere stata abbandonata per "indegnità'" ed il cercare di commuovere (cum motus, ovvero far andare con lei, stare assieme) un sostituto materno che possa accoglierela, tentativo che inevitabilmente fallisce proprio a causa della sporcizia fisica e mentale con cui Laura si presenta.
Cosi', in questa continua rappresentazione, il suicidio puo' essere il tentativo estremo di commuovere un oggetto materno ad occuparsi di lei.
La rappresentazione inconscia usa il mondo come un palcoscenico, quindi esistono concrete possibilita' che la paziente metta in atto un suicidio, lento e sistematico, come se dovesse richiamare l'oggetto amato, una sorta di deus ex machina che arrivi inopinatamente a salvarla.
A differenza di una rappresentazione teatrale, in cui gli effetti pragmatici sono sospesi e rimane solo l'emozione dello spettatore e di chi recita, nella vita un suicidio di questo genere e' spesso portato a termine, cosi' che la rappresentazione si conclude con la morte reale del protagonista.
Decidemmo che avremmo iniziato a lavorare insieme una volta a settimana, conducendo un'esplorazione psicologica della sua realta' che poi avrebbe potuto portare a decidere anche altre forme d'intervento, integrative della psicoterapia o sostitutive, come ad esempio un ingresso in comunita' terapeutica.
Nello stesso tempo Laura iniziava una terapia a metadone, però in maniera scontata, scissa da qualsiasi contestualizzazione dell'intervento farmacologico in un progetto di cura fondato sull'alleanza terapeutica.
Ancora una volta la risposta istituzionale ha fatto ricorso al metadone come strumento "magico", per annullare qualsiasi attribuzione di senso alla relazione con la paziente e, quindi, tacitare le proprie angosce relative al senso di impotenza, di inutilità, di morte.
Il servizio "é intervenuto", e ciò é potuto avvenire nel rispetto di regole, regolamenti, regoline e regolucce.
Il paziente é formalmente in carico, può entrare nelle statistiche da inviare a Regione, Prefettura, Istituto Superiore di Sanità, Ministero della Sanità, ovunque vi siano zelanti funzionari che, per giustificare la propria esistenza dopo una notte trascorsa insonne nella paura del capufficio, si svegliano la mattina e decidono di aumentare il peso della burocrazia per autogiustificare il proprio lavoro.
Laura propone una modalità relazionale disfunzionale ed il servizio la ripaga con la stessa moneta, rimanda specularmente la stessa modalità non introducendo alcuna forma di cambiamento. Tale modalità si fonda sul'uso degli operatori in maniera scissa, per cui se medico ed infermieri assumono simbolicamente la parte speculare e respingente, in quanto somministratori di una sostanza dai poteri magici, lo Psicologo "accoglie" la parte scissa, quindi contenitore passivo di tutte le scorie. 
La scissione vien spesso reificata attraverso la contrapposizione tra parte "medica" e "psicosociale" dell'intervento, fino ad arrivare ad una divisione stretta di temi e spazi fisici. la presenza di meccanismi di identificazione proiettiva si può notare dalla sensazione, diffusa nelle narrazioni degli operatori, che tutto sia "veramente" così e sia impossibile da modificare, esattamente speculare alla sensazione di disperazione e di impotenza della paziente. Naturalmente Laura ne ha già abbastanza delle proprie scissioni, senza dover sopportare le psicopatologie insite nelle ASL, così dopo una settimana abbandona il ricorso al metadone ed i colloqui con me.
Sarà morta? No, fa troppo male chiederselo; meglio dedicarsi alla prossima "accoglienza", alla prossima zuffa con i colleghi, alle prossime imprecazioni sul capo servizio ignorante e maleducato, alle novità sindacali, al conto dei giorni di ferie residue e dello straordinario effettuato, alla lettura e commento approfondito del Corriere dello Sport.". 
Quando compilavo questo scritto nel 1991 ero appena reduce da un viaggio a New York, avevo visitato le Twin Towers ed oggi mi impressiona averle definite, insieme con gli altri grattacieli, "monumento all'insensatezza umana"... pur avendo lavorato anni ed anni nell'area delle tossicodipendenze non mi sono abituato mai a non sapere più nulla di molti pazienti che giocavano così facilmente con la morte... il ricordo di Laura fa ancora male e fa male il pensiero che forse, anzi, probabilmente, 20 anni dopo non fa più parte di questo mondo... o forse si...

giovedì 31 marzo 2011

Storia di una nevrosi ossessiva

Eraldo era seduto sulla panchina, composto e riservato come al solito. Con una mano si aggiusta i capelli che iniziano ad essere ricoperti da qualche filo bianco, con l'altra mano tiene stretto il manico del suo borsone scuro, pronto a sollevarlo per saltare sul treno. L'aria umida e nebbiosa fa risaltare gli odori dell'erba che oramai cresce disordinata tra i binari, mentre l'orologio della stazione segna le 12.23. Le lancette hanno sempre la stessa posizione, come due amanti dubbiosi che non riescono ad avvicinarsi più di così ma nemmeno ad allontanarsi. Le lancette si guardano immobili da quando l'orologio ha cessato di vivere, con il vetro rotto testimone del tempo che non scorre. Nel piccolo ufficio del capostazione le carte svolazzano comandate solo dal vento e non più dalle sue mani ordinate. Sulla scrivania un giornale ingiallito del 31 marzo 1971. Eraldo aveva sei mesi quando il padre morì. Cresciuto con una mamma bambina da accudire, ha sempre atteso un padre con cui rafforzarsi facendo la lotta, un padre che gli facesse da specchio della sua identità maschile e lo incoraggiasse ad intraprendere, consentisse la crescita della sua autostima stimolandolo a provare le sua abilità dapprima in un ambiente protetto, per poi esporsi al mondo. Eraldo attende che il treno destinato a portargli questo padre passi sul binario, attende da 40 anni che a lui devono essere sembrati un giorno. 
Questa stazione abbandonata e fantasma è il simbolo della nevrosi ossessiva che avvolge e protegge Eraldo, che per esporsi al mondo vuole prima incontrare un padre che formi le sue capacità di affrontare le cose. Nel frattempo si protegge attraverso i mille dubbi che si formano nella sua mente ogni volta che deve effettuare un scelta, attraverso il controllo maniacale che filtra tutte le sue azioni, idee, relazioni, con il risultato di rimanere bloccato ed inane ma, nella sua fantasia, protetto dalle possibili conseguenze negative dell'esposizione al mondo. Eraldo vive ma non ama, vive ma non lavora, vive ma non gioisce, vive ma non piange, vive ed aspetta. Aspetta che passi il treno che gli porti il papà della sua infanzia, un treno su cui finalmente saltare felice. Il tempo all'interno della stazione è fermo, fuori scorre freneticamente, le cose cambiano, evolvono, Eraldo ne ha sentore, più passa il tempo più il mondo che sta fuori gli diventa estraneo e terrificante. Qualcuno lo deve mettere in contatto con la possibilità che quel treno non passi mai e che, attraversato il lutto e fattosi meno lancinante il dolore della perdita, lui potrà iniziare ad affacciarsi fuori dalla stazione, in un mondo inizialmente terrificante ma nel quale potrà trovare le forza di crescere, potrà trovare le delusioni, la competizione, l'offesa così come l'amicizia, l'amore, la natura, tessendo una relazione che piano piano possa vitalizzare un intrapsichico coartato e considerato, in maniera auto riflessiva, privo di mezzi e poco attraente per gli altri. Questo delicato compito tocca al suo psicoterapeuta, che dovrà essere paziente e delicato, potrebbero volerci anni per mettere Eraldo a contatto con questa realtà, nello stesso tempo curioso e determinato a compiere questo viaggio inseme al paziente, accompagnandolo in luoghi della mente unici ed irripetibili. Nemmeno alla psicoterapeuta è dato di conoscere in anticipo questi luoghi, li vede per la prima volta mentre li esplora con il paziente. Viceversa lo psicoterapeuta ha dalla sua parte il saper viaggiare, è un viaggiatore esperto che ha percorso chilometri e chilometri in luoghi della mente sconosciuti ed inattesi, con tante persone diverse, così ha imparato il piacere e la tecnica del viaggio, ha imparato ad affrontare imprevisti ed aiutare il paziente a cavarsela durante i percorsi.

domenica 13 marzo 2011

Le storie del centro notturno di pronta accoglienza per persone tossicodipendenti

Le storie riportate hanno diversi aspetti in comune e consentono qualche riflessione.
Inizialmente prenderei in considerazione alcuni aspetti relativi all’utenza. Non si tratta solo di ospiti coinvolti con l’uso di sostanze stupefacenti, ma portatori di ulteriore disagio, si tratta infatti di persone che hanno interrotto più o meno recentemente e più o meno definitivamente il rapporto con figure significative. Non ci sono genitori, non ci sono amici, non ci sono parenti, non sembra nessuno, spesso nemmeno i servizi, disposto ad accoglierli. Quasi tutti i centri notturni di Roma non accolgono persone tossicodipendenti ed alcuni di quelli deputati a farlo pongono dei veti su alcuni. 
E’proprio qui, in centri come questo, che ci si rende conto che quando si tocca il fondo c’è sempre qualcuno che bussa da sotto. 
Nella notte, che sembra portare con sé il luogo da cui non è possibile fuggire, le persone, distanti solo qualche attimo dall’ultima dose assunta, si aprono al dolore, al bisogno ed alla domanda di aiuto. Ed allora la richiesta di un posto letto si configura come un’emergenza di un tutto che nasconde e palesa situazioni molto complesse, gravi. Insomma il papà che si coinvolge sino a portare la dose al figlio, il malato di AIDS, il giovane che nella notte si aggira con un coltello, quello che delira, sono tutti portatori di richieste che, sebbene celate all’interno di comunicazioni assurde o di monotone ripetizioni di messaggi non verbali sulla relazione, vanno al di là di quella legata alla erogazione di un’ospitalità, di un pasto caldo o della possibilità di lavarsi. Consegue il notevole coinvolgimento umano e impegno professionale richiesto all’operatore, che non può sottrarsi al confronto continuo con gli aspetti più duri della vita, il dolore, la malattia, la morte, e con richieste sempre più forti, sempre più pressanti sino a connotarsi come urgenze. Si tratta per l’operatore di contattare situazioni dal forte impatto emotivo e si tratta soprattutto di salvaguardarsi e di orientare i propri vissuti in un progetto di intervento dotato di senso ovvero un’azione che, tenendo conto delle risorse dell’ospite, dell’operatore e dei servizi esistenti, persegua obiettivi possibili. Infatti è necessario assicurare all’utenza un’azione assistenziale, una risposta concreta  che soddisfi i bisogni primari e riduca nel contempo i rischi socio-sanitari impliciti nel vagabondare notturno, ma anche un’azione di decodifica della domanda con conseguente organizzazione di risposta adeguata. Ciò è assicurato dall’azione di supervisione, necessaria per qualsiasi lavoro che implica l’analisi di una relazione ed assolutamente imprescindibile per servizi di frontiera come il centro notturno di Magliana ’80.

giovedì 3 febbraio 2011

Lorena, la zingarella con la sua tanica di benzina...

Sono stato supervisore delle unità di strada che si recavano nei campi nomadi per contrastare il fenomeno della tossicodipendenza...  venivo sistematicamente investito da storie incredibili, letteralmente provenienti da un'altro mondo, spesso scorrendo in macchina lungo la via Olimpica ero diviso da loro solo da pochi metri: prima di intraprendere questo lavoro non capivo che abisso potesse rappresentare quella distanza, fisicamente così breve, colmabile da un solo colpo d'occhio... Le storie lasciavano un senso di sconcerto, di incredulità, perfino una sensazione fisica di sporcizia che ti si attacca addosso, tornando a casa avevo sempre voglia di farmi una doccia, distrarmi, radicarmi nelle mie sicurezze quotidiane, rinnovare i parametri di lettura del mio mondo... Il nostro era un lavoro motivato dalla grande diffusione dell'uso di sostanze stupefacenti tra la comunità Rom... ciò che mi ha sempre colpito è il massiccio coinvolgimento dei bambini: annusare benzina, caffè e sigarette sono diffusi sin dall'età più tenera, parliamo anche di bambini di 4 anni... droghe come la cocaina sono socialmente accettate perchè rinforzano la potenza maschile, mentre fumare l'eroina è roba da donne... il problema all'interno dei campi nomadi non veniva percepito come tale fino a che i giovani non hanno iniziato a rubare all'interno della loro stessa comunità, violando norme millenarie e sconcertando così i capi Rom, che per questo, solo per questo, accettavano volentieri il nostro aiuto. Ecco la storia di Lorena, 9 anni...

Come dici? Il mio nome? Per voi gagè il mio nome è Lorena.
Mi chiamano Lorena e ho 9 anni, ecco chi sono! Oggi mia madre non c’è sono io che bado alla baracca e agli altri bambini.
Sono nata in Kossovo prima della guerra; poi una notte siamo partiti di fretta, senza farci vedere. Mia madre aveva paura: diceva che avrebbero ucciso tutti i miei fratelli e mio padre se fossimo restati là. Quella che viene giù dalla BMW? Mia sorella Sara invece è nata a Roma, qui alla Muratella dove viviamo adesso, ha 4 anni. In questi giorni gli uomini preparano le baracche per l’inverno. Cercano tra i tanti rifiuti sparsi attorno quel che può servire. Legna da vecchi infissi e da armadi, plastiche grandi e piccole per far scivolare via la pioggia. Porte rotte, finestre, lamiere, tutto va bene per casa nostra. C’è da tappare ogni buco per non lasciar passare il vento freddo che a Roma viene dal mare. Intorno a casa nostra ci stanno le famiglie dei due fratelli di mio padre e quella di una sorella di mia madre con la nonna che è la più anziana di tutti. Anche alle altre baracche stanno lavorando i maschi.
Noi siamo in quattro io e Sara più i miei fratelli Ivan e Kevin, ma ho anche altri diciotto cugini che dormono nelle tre case vicine.
Che facciamo? Te l’ho detto prepariamo le case per l’inverno, poi giochiamo e cerchiamo da mangiare.
Come dove? In giro per la strada, ai semafori, in giro.
Che giochi? I giochi sono giochi di discarica alla fine del gioco devi sempre portare o cibo o soldi o qualcos’altro di utile, che so un vestito vecchio. Cosa mangio? Bhe! Mia madre mi ha lasciato il pranzo per me e i miei fratelli, ma è un pollo solo non credo che basterà.
Ah! Un nuovo gioco lo ha inventato Manlio che è arrivato dal Belgio, dice che si fa in tutti i campi. Che gioco? Ma, come non lo conosci, se si fa in tutti i campi?!
Manlio è il figlio dello zio Istvàn ha 13 anni e suona con la tastiera elettrica sulla linea del tram. È forte Manlio.
Ah il gioco! Il gioco si fa cercando vicino alle macchine o vicino ai caravan. Se guardi bene c’è sempre una tanica con un po’ di benzina dentro. Non ti devi far vedere da nessuno. Prendi la tanica e cerchi un posto tranquillo per nasconderti. Manlio, lui però, non si nasconde più. Poi prendi la tanica la avvicini alla bocca e al naso fai un respiro lungo aspetti un po’, poi ne fai un altro, poi un altro, poi un altro. Ci vuole poco e la benzina è facile da trovare. È come un sogno senti che la testa ti gira e tutto intorno il mondo scompare e ti senti forte, grande, invincibile. Poi ti addormenti, quasi, rimani senza renderti conto e il tempo passa più veloce senza sentire dolore. Adesso gioca come noi anche Sara che ha 4 anni e non si lagna più come prima, tutti lo fanno nei campi tra le baracche, noi siamo più forti degli altri bambini, siamo Rom.

venerdì 28 gennaio 2011

...quando piange lo fa più piano. Un tossico ed il suo cane.

Questa è una delle storie a cui sono più affezionato, è stata scritta da un operatore sociale della Cooperativa Magliana '80, che si occupa dell'intervento sulle tossicodipendenze in quel quartiere romano che ha legato il suo nome al degrado ed alla malavita. Oggi degrado e malavita non sono scomparsi ma convivono con i pensionati ed un ceto impiegatizio "piccolo borghese", come si diceva negli anni 70. Il Camper veniva utilizzato, in convenzione con il Servizio per le Tossicodipendenze della ASL, per decentrare le terapie sostitutive con il metadone e portarle più vicino ad una serie di pazienti che vivevano una condizione di tossicodipendenza oramai cronica... questo in teoria, e talvolta anche in pratica... in buona sostanza invece affluivano al Camper i soggetti più problematici dal punto di vista comportamentale che, con la loro patologia psicotica o borderline, concomitante ad un massiccio uso di sostanze e ad una vita condotta oltre i margini della legge, mettevano in seria difficoltà i servizi della ASL. L'équipe del camper era mista, medico ed infermiere della ASL, operatori sociali di Magliana 80, spesso ex tossicodipendenti con un percorso riabilitativo completato e mantenuto con successo, che "sapevano" come trattare con quegli utenti difficili. La mia funzione di Supervisore era quella di ascoltare le angosce di questi operatori di fronte al tema del degrado, della malattia e della morte, temi da loro attraversati in prima persona e riattivati dal rapporto con questi pazienti particolari, cosa che metteva loro in una posizione delicatissima. Penso, spero, di aver aiutato a "non farsi male" queste persone speciali, piene di vita e di esperienza, con una carica ed una sensibilità fuori dal comune... abbiamo passato insieme molte ore e molti anni a discutere, pensare metodi, valutare il lavoro, cercare di migliorarlo, raccogliere ed elaborare angosce personali molto profonde, interpretare il senso delle trame relazionali che si attivavano con i pazienti... qualcuno di questi operatori si è laureato ed è diventato un collega, chi è diventato nonno, chi è morto di AIDS dedicando gli ultimi giorni della vita a lavorare per strada con i "tossici"... di altri ancora non conosco quale sia stato il loro destino... mentre scrivo non so se li ho mai ringraziati per tutto quello che mi hanno insegnato, nonostante fossi io il loro supervisore... è giunto il momento di colmare questa lacuna... 
Ecco la storia, la trovo particolarmente toccante, anche per la presenza di un cane, unico affetto del paziente che chiameremo Andrea...

immagine da www.tafter.it

Andrea è stato uno dei primi a venire al Camper. Abitava e abita a Donna Olimpya e con la chiusura del Ser.T si era trovato un tantino in difficoltà, tenendo conto che stava a 280 mg di metadone a mantenimento più tre Minias al giorno. Non tre pasticche di Minias, tre flaconi di Minias.
Arrivava tardi preceduto da Lucky a cui scioglieva il guinzaglio subito dopo essere entrato nel parcheggio.
Ci metteva tre quarti d’ora per buttarsi giù quei due bicchieroni, non avevo mai visto una cosa del genere, lo giuro.
Veniva sempre lavato e profumato col suo faccione da bambino leggermente sudato e sempre con Lucky attaccato al lungo guinzaglio rosso ed era sicuramente più sorridente di tanti che avrebbero da ridere ma da ridere veramente.
Cerchiamo di spiegarci. Se su cento persone che dovevano venire al Camper non ne veniva qualcuno, a caso, questo non era un problema. Se per la mezza Andrea non si vedeva, questo era un problema, un bel problema.
Se veniva presto era peggio, dato che c’ aveva tempo pure per vomitare e ricominciare da capo con i 280.
Una volta d’estate l’hanno portato i Carabinieri. Lucky non c’era, l’avevano lasciato legato a un palo da qualche parte. Lui piangeva forte e tremava ancora più forte. Lo avevano fermato con mezz’etto di fumo mentre parlava con due pischelli.
Ci mise relativamente poco a bere i primi 280 e possiamo dire che, da come la vedevo io, era più che altro preoccupato per Lucky. Vomitò affacciato alla porta del Camper e ripartì come al solito molto più agitato del solito, anche i Carabinieri era agitati, lo misero in macchina e ripartirono, ma si fermarono inchiodando prima di uscire dal parcheggio. Vomitò per la seconda volta senza scendere dalla macchina.
Lo riportarono dal dottore mentre qualcuno chiamava il responsabile del Ser.T, tossiva forte e c’aveva la pressione alta, parecchio. I Carabinieri non sembrava volessero mollarlo non ancora, rimontò sul Camper il dottore gli fece un Plasil, intramuscolo, lui si sedette un quarto d’ora e l’infermiera gli versò i soliti 280.
Li bevve piano questa volta e il suo stomaco intorpidito dal Plasil parve sopportarli. Lo portarono via, seppi poi che gli avevano fatto solo il foglio di sequestro, solo questo. Qualcuno disse che era infame, che qualcun altro aveva pagato al posto suo.
Io non credo sia andata cosi. Io con lui c’ho parlato e mi ha detto che gli ha vomitato al Comando, su una scrivania, che ha iniziato a tossire e a scatarrare dappertutto, che gli si erano gonfiate le mani e pure il viso e che poi non c’era niente da pagare.
Perché lui si il fumo glielo aveva pure dato ai pischelli, questo si, ma i pischelli l’avevano buttato perché avevano visto i Carabinieri da lontano, dato che erano in divisa ed era vero io pure li avevo visti.
E forse nemmeno i Carabinieri se la sono sentita di lasciare dentro Regina Coeli un cristiano in quella condizioni, per così poco.
Adesso sta meglio, é stato per tre mesi al Gemelli e glielo hanno scalato con le flebo.
E’ fermo a quaranta di metadone e un flacone di Minias.
E’ sempre facile al pianto ma quando piange lo fa più piano.

sabato 15 gennaio 2011

I nostri ragazzi e le "nuove droghe". Storia di una scorciatoia del vivere...

Per anni ho supervisionato le Unità di Strada che si occupavano elle cosiddette "nuove droghe", consumate prevalentemente nelle discoteche da ragazzi molto giovani: tutte le varie forme dell'Ecstasy sono dette droghe empatogene, hanno come effetto principale quello di superare la normale timidizza ed imbarazzo che ci può essere in un contatto tra coetanei adolescenti che si avvicinano al tema della sessualità: sentirsi estroversi ed in pace con il mondo, poter "rimorchiare" chiunque sentendosi un gran figo od una grande figa, poter esercitare una libertà sessuale spesso oltre i limiti della propria capacità emotiva di poter sopportare esperienze forti; poter ballare tutta la notte e sentirsi onnipotenti;  i danni non sono solo fisici o psicopatologici, il colpo di calore, attacchi di panico, crisi psicotiche: il danno più grosso è l'evitamento di quella condizione esistenziale in cui dobbiamo superare la paura dell'entrare in relazione con l'altro, la paura della sessualità, la paura di non essere abbastanza apprezzato/a e costruire così una propria identità personale e psicosessuale. Questo genere di droghe hanno un forte appeal perchè consentono di evitare il problema, spesso con l'aiuto delle birre e di qualche canna fatte prima di entrare in discoteca, e di qualche pasticca di benzodiazepine o una sniffata di eroina presa prima di arrivare a casa la mattina per diminuire gli effetti eccitanti, ovvero "scendere e smaltire sennò i miei me tanano". Su circa 10.000 ragazzi e ragazze contattati in discoteca 1 su 2 aveva provato una qualche forma di sostanza, è vero che provare non significa automaticamente diventare tossicomane, ma i numeri sono enormi e quest'esperienza fatta continua a ribalzarmi in testa creando interrogativi, riflessioni e, da padre e da persona affascinata dai giovani, preoccupazione. Questa è una delle storie pubblicate su "Storie di Strada" Arion Edizioni, scritta da una Psicologa di Magliana '80. Aiutare questi ragazzi a non vivere solo nell'azione, a narrare la loro storia, a sentire di avere una mente che può tenersi in mente e considerare i propri sentimenti, pensieri, immagini, idee, aspirazioni, delusioni, frustrazioni e rabbie, sia nella dimensione intrapsichica che in quella interpersonale, è "la cura", la cura che può dare un'alternativa ad una mente condizionata e manipolata dalla chimica delle sostanze assunte, le scorciatoie del vivere...

Un pomeriggio….
E’ domenica pomeriggio. Io, Alessandra e Silvana ci vediamo in sede per un turno pomeridiano alla discoteca Heaven ,che si trova a Piramide. Tutti i pomeriggi di sabato e di domenica la discoteca accoglie ragazzi di età compresa tra i 14 e i 18 anni, anche se non è strano incontrare giovani di età superiore.
Come al solito, prima di spostarci alla volta del locale,ci confrontiamo sulle cose da portare con noi e prepariamo il materiale necessario (volantini, preservativi…candele...teli da mettere sul tavolo) per renderci visibili e per creare uno spazio che ci distingua e ci accolga. Portiamo anche gadget e dolciumi che vengono scelti tenendo presente i gusti dei ragazzi., sempre per agevolare il contatto con loro.
Organizzato il materiale prendiamo la macchina, concordiamo su chi va alla guida, e quindi partiamo alla volta dell’Heaven.
Al nostro arrivo, davanti al locale, troviamo un nugolo di ragazzi assiepati davanti all’ingresso; noi non abbiamo problemi ad entrare, grazie all’ottimo rapporto con ........., organizzatore dei pomeriggi dedicati ai più giovani. L’ottimo rapporto instaurato con lui, già dal primo anno del progetto, ha fatto sì che ogni nostro intervento avvenisse in stretta sinergia con il programma del locale. Questo non solo ha favorito i contatti ed agevolato l’accettazione da parte del contesto (ragazzi – operatori del locale- operatori di Magliana 80) ma ha anche stimolato la creatività sulle possibili cose da proporre in futuro……………..il locale è stato per noi ottimo osservatorio dei comportamenti del gruppo target, un’ottima palestra per il nostro lavoro.
Entriamo in discoteca, dove i ragazzi dell’equipe del concludono freneticamente gli ultimi preparativi e ci sistemiamo nei divanetti sotto la console che si trova davanti la pista, posizione che ci permette di interloquire sia con i ragazzi sia con i dj, se necessario per richiamare l’attenzione sul nostro lavoro.
 Sistemiamo il materiale, accendiamo le candele, i preservativi vengono sistemati singolarmente su un cestino e anche noi siamo pronti per l’“evento”…….inizia la musica….i ragazzi si riversano nella pista……e pian piano cominciano ad avvicinarsi…..prima timidamente…..poi in maniera più spigliata e intraprendente…forse anche grazie al nostro atteggiamento accogliente!
I ragazzi si avvicinano e noi gli andiamo incontro cercando di spiegare che il materiale contiene delle informazioni su come funzionano le droghe ,indicandone gli aspetti e i rischi, in altre parole le conseguenze dannose sulla salute fisica e psicologica. 
Aggiungiamo alle informazione sulle droghe anche il preservativo, che non è un gadget, ma ci permette di parlare dei rischi di malattie sessualmente trasmissibili e poi lasciamo la possibilità al ragazzo/a di porre delle domande, se ne ha , o di raccontare qualcosa di lui come è capitato quel pomeriggio.
Dopo qualche ora che stavamo lì , si avvicina al nostro tavolo un ragazzo che, in maniera timida , mi chiede che cosa facciamo e chi siamo. Io immediatamente gli dico che siamo un gruppo che lavora per Magliana 80, che ci occupiamo di prevenzione sulle droghe, in particolare sulle sintetiche e sull’ecstasy.
Gli mostro il nostro materiale informativo e glielo offro, chiedendogli se conosce le sostanze di cui parlo. Il ragazzo risponde timidamente, guardando a terra, di sì ; chiede che effetti hanno sul cervello ed io gli parlo dell’azione sulle serotonina, degli effetti a lungo termine e della possibilità che compaiano anche attacchi di panico…. Piero mi guarda negli occhi, mentre prime, pur rimanendo attento , manteneva gli occhi bassi, e, infine, mi chiede se sono una psicologa.
Io gli dico di sì e, allontanandoci dal tavolo, mi racconta di sé, mi dice che ha cominciato ad usare l’ecstasy circa un anno e mezzo fa, frequentando durante il fine settimana, un gruppo di amici che andavano in discoteca e che , dopo una delusione sentimentale, voleva un po’ reagire e non pensare…
Piero ,che ha 17 anni, aveva continuato ad usare ecstasy per circa otto mesi tutti i fine settimana...poi in famiglia si erano accorti che stava male….lui era riuscito a parlarne con il padre, anche perché, nel frattempo, erano comparsi stati d’ansia molto intensi che lo avevano convinto a chiedere aiuto. Gli chiedo a chi si erano rivolti e il ragazzo risponde che il padre lo aveva accompagnato ad un CIM dove c’era una psicologa. Aggiunge che con la psicologa che lo segue si trova bene e che ha capito delle cose, anche se lui è impaziente di ottenere dei risultati. Lo esorto a non mollare, ribadendo il possibile collegamento tra i suoi stati d’ansia e l’uso della sostanza…e infine aggiungo che potrà avere delle informazioni supplementari dagli psicologi del nostro sportello di cui fornisco numero e indirizzo. Gli dico di cercare Fabio, o anche nella nostra sede, ma lo rinforzo a continuare il percorso intrapreso.
Piero mi ringrazia e mi dice che è la prima volta che parla di questa esperienza con una persone estranea, mi sorride e si allontana.

domenica 2 gennaio 2011

Sale e coltello. Una storia dal centro notturno di pronta accoglienza...

Sale e coltello

Mi sveglio di soprassalto con una sensazione di disagio. Subito porto l’orologio davanti agli occhi. Sono le 3.00 di notte. Mi colpisce la forte luce in cucina, proprio di fronte all’ufficio vetrato dove dormo.
Immediatamente inquietudine, non è normale , di solito gli ospiti andando in bagno accendono la luce piccola....
Resto due minuti ancora sul letto cercando di ascoltare se si sentono dei rumori. Silenzio assoluto. Mi alzo ed esco dall’ufficio dirigendomi in cucina. Penso che con quella luce così forte e violenta anche la mia collega si sarà svegliata. Entro in cucina. C’è una persona, di spalle alla porta, davanti al lavandino, immobile. Mi colpisce subito il coltellaccio posato sul ripiano della cucina : è il più grosso che abbiamo. Ho riconosciuto la persona : è Marco.
La cosa non mi tranquillizza, stasera era molto “fatto” di pasticche, e tutto il suo agire sembrava senza senso. Sono inquieto, preoccupato. Come starà ? Sarà minaccioso, pericoloso ? Anche il fatto che stia del tutto fermo mi preoccupa, sembra perso nel vuoto.

La notte stellata V. Van Gogh

Decido di passare all’azione. Gli parlo senza muovermi, mantenendo una certa distanza di sicurezza da lui : “Che stai facendo ?”. Marco ha un sussulto, dice di non avermi sentito arrivare. Molto lentamente si gira e alza un contenitore di sale che deve aver preso dalla credenza (lo sportello è aperto), non parla, lo guarda un po’, lo riposa, fa un passo in avanti e prende il coltello. La mia ansia è al culmine, ma cerco di tranquillizzarmi e vedere cosa succede . Lo guarda un po’ poi lo riposa. Mi guarda e dice : ”Volevo bere un bicchiere d’acqua”. Barcolla, quasi cade. Si gira e si avvia lentamente verso il bagno, sparendovi all’interno. Rapidamente entro in cucina e rimetto a posto sale e coltello. Capisco subito che sarà bene il giorno dopo togliere dalla cucina i coltelli. Non lo faccio subito per non creare agitazione. Marco esce dal bagno, mi guarda, ma non parla e barcollando vistosamente, se ne torna in camera da letto. Dopo un minuto lo seguo. E’ tutto spento, ma attraverso la luce che esterna, filtrata dai vetri, vedo abbastanza bene. Rimane un po’ seduto sul letto poi lentamente si sdraia e dice :”Sale e coltello”. Torno in cucina e tolgo i coltelli, mettendoli in una busta che porto in ufficio. Spengo la luce. Torno a letto. Ho avuto parecchia paura. Cerco di rilassarmi. Resto per parecchio tempo con gli occhi aperti nel buio.