giovedì 20 ottobre 2011

Laura, l'eroina, le torri gemelle ed il guardiano del tempo...

"Laura non ha piu' voglia di vivere. Quando si presenta alla seduta parla con un filo di voce, e' curva, ha le mani ed il viso sporchi. Il fumo della sigaretta che passivamente tiene tra le mani le corre lungo la mano e poi su per il braccio, come se contribuisse a sporcare sempre di piu' la sua persona.
Laura fa uso di eroina da 12 anni, da otto anni e' sieropositiva.
E' di ritorno da un viaggio in India, durante il quale ha cercato tutti i modi possibili per degradarsi. E' impressionante come nelle sue condizioni fisiche e mentali abbia potuto resistere agli assalti del tifo e dell'epatite, dei quali soffre ancora i postumi.
Laura viene accompagnata dalla sorella di qualche anno piu' giovane, sposata, con un figlio ed una vita normale. Le prime parole che Laura pronuncia sono paradossalmente un atto di affetto e di protezione nei confronti della sorella: "anche mia sorella ha sofferto molto, e' stata anoressica per tanti anni, solo io pero' ho avuto il coraggio di testimoniare fino in fondo tutte le cose che nella nostra famiglia non sono mai andate!".
La sorella mi dice che le avevano fatto il mio nome e che quindi aveva invitato Laura a rivolgersi a me per un aiuto psicologico, visto che finora qui nel servizio per le tossicodipendenze aveva preso solo il metadone, con scarsissimi risultati. Nel nostro lavoro incontriamo situazioni come questa, che ci sbattono in faccia il problema del limite, dell'impotenza, della morte, intesa come il grande guardiano del tempo,  ma anche di quella piccola morte quotidiana che e' scritta in ogni atto di vita che noi compiamo, e quando e' compiuto e' passato, morto.
Ogni piega del volto di Laura è una narrazione del grande guardiano del tempo, la morte.
Lo sguardo di Laura mi proietta nel buio della mia anima, in braccio ai miei fantasmi, la malattia, la perdita, l'abbandono.
Saper leggere e comprendere queste reazioni che avvengono dentro di se', ovvero,  in gergo tecnico, "l'analisi del controtransfert" e' lo strumento principale per poter effettuare una diagnosi dei fantasmi che abitano sommessamente e nascostamente guidano i pensieri del paziente, le sue scelte, le sue relazioni ed i suoi comportamenti.
Nascondere a me stesso e "superare" razionalmente l'impatto devastante che una persona come Laura aveva su di me sarebbe stato equivalente e rinunciare a capire il senso simbolico, profondo, inconscio, di cio' che Laura mi stava comunicando. Il lavoro clinico va affrontato senza ipocrisie, con il coraggio della trasparenza verso i propri sentimenti e verso i propri stati emozionali, solo cosi', con l'onesta' verso se stessi, si puo provare ad aiutare il paziente ad essere trasparente nei sui stessi confronti, restituendogli e rispecchiando le latri del Sè che mette in gioco nella relazione terapeutica. 
Il messaggio di Laura era evidentemente di disperazione. Stava distruggendo e negando se stessa, provava ribrezzo verso di se' e verso la sua vita. Laura, generando in me questi stessi sentimenti, mi ha subito fatto capire quanto poco contasse per lei vivere, visto il ribrezzo che provava verso il suo corpo malato e la sua mente depressa, seguendo la narrazione scissa che la paziente fa di corpo e mente come entità separate e giustapposte.
Qui ci vorrebbe il dipartimento di salute mentale, l'unita' operativa di terzo livello per l'aids, i pompieri, la guardia nazionale, l'esercito, il buon Dio in persona! La mia mente annaspa in cerca di un aiuto improbabile, specchio dei fantasmi di Laura che sembrano agire così in profondo dentro di me in modo tale da comunicare il suo non aspettarsi mai un aiuto sufficientemente adeguato al suo bisogno.
La paziente inizia a parlare di se' descrivendo la sua situazione, mentre io, oramai enfio di impotenza, mi chiedo perché continuo ad occuparmi di casi disperati, di tossicomani con i quali si rischia di non vedere mai un risultato.
Penso alla mia montagna e vedo i miei cani che corrono liberi e veloci, inebriati dagli odori e dall'aria talmente fredda, tersa e pungente da far male al petto.
Mi scopro ad odiare la citta', il rumore, le macchine, tutto cio' che trovo "innaturale". Comincio ad articolare tutta una gamma di pensieri fobici, cha hanno tutti il tema centrale di sentirmi chiuso, come mi sentivo chiuso quando ero a New York, citta' maleodorante, fetidamente incazzata e soffocante con i suoi cumuli d'immondizia, di rifuti urbani ed umani ed i suoi grattacieli, monumenti al trionfo dell'insensatezza, della presunzione umana.
In quel viaggio c'è stato un momento in cui non avrei voluto uscire dalla mia stanza, sapevo che la citta' mi avrebbe aggredito alla gola facendola bruciare con la sua aria chimicamente artefatta, mi avrebbe tolto l'aria e la vista del cielo con i suoi grattacieli, mi avrebbe costretto a rivolgere lo sgurdo verso il basso e guardare la merda umana circolante sui marciapiedi, purtroppo ed inevitabilmente avvertendo anche me come parte di essa.
Laura era in qualche modo un prodotto di quella forma di civilta' che abita i miei incubi peggiori, e per questo mi costringeva a specchiarmi nella mia stessa merda ostentando la sua. Avrei voluto togliere gli occhi per non vedere, annebbiare la mente per non pensare, suonarmi in testa una sinfonia a tutto volume, forse la pastorale, per non sentire le parole di degrado e sofferenza che Laura lasciava fluire su di me, piano piano contagiandomi  e sporcandomi, inquinandomi con i suoi fantasmi e con il suo mondo interno corrotto, distrutto, non piu' vitale.
Con Laura non potevo evitare tutto questo, mi sentivo come un cucciolo di cane che viene sbattuto puntivamente dal padrone con vigore dentro la sua stessa pipi', gli sembra ingiusto e non puo' fare nulla per evitarlo. Ma sono io stesso a non volerlo evitare, anzi a cercare nel mio lavoro un contatto con parti cosi' profonde degli altri e di me.
Qualsiasi altra professione mi avrebbe consentito di vagabondare negli strati piu' superficiali della mente e delle relazioni con gli altri, sempre spaventato della discesa nel profondo di me stesso, maniacalmente impegnato a fare cose, ad agitarmi insensatamente nel mondo esterno, realizzando cosi' una perpetua fuga.
Quindi sono grato a Laura, quando mi fa ricordare la mia paura della morte che mi fa lottare con il sonno invece che abbandonarmi ad esso sin da quando ero un piccolo bambino e mi scusavo con Gesu', che non si offendesse, ma io proprio non volevo stare nel cielo con Lui e tutti gli angeli, stavo tanto bene sulla terra con il mio papa' e la mia mamma, e lo pregavo di lasciarmi qui.
Laura, e tutti i pazienti gravi come lei, hanno il potere di fecondare.
Mi stava aiutando ad affrontare ed elaborare una delle mie paure fondamentali. Ad un tratto e' chiaro come non sia lei a fare ribrezzo, ma le mie parti spaventate, timorose, incapaci di uscire allo scoperto. Comunque, se Laura aiuta me, veramente non so come fare per aiutare lei.
Non puo' essere completamente devitalizzato e degradato il mondo interno di una persona che riesce comunque a fecondarti, comunicando con te in maniera cosi' violenta ed esplicita.
A questo punto mi vengono in mente le parole di Carl Gustav Jung, che definiva il sintomo psichiatrico come melma e diamante alla stesso tempo. Man mano che la paziente continuava la descrizione del proprio degrado, pensavo a come la cultura occidentale, fondata sul pensiero aristotelico, sulla logica del pensiero razionale e dividente, categorizzante, ci renda difficoltoso riconoscere gli opposti presenti in ogni cosa. Riuscivo a cogliere il messaggio profondamente vitale, di estrema richiesta d'aiuto, veicolato proprio da quel presentarsi in condizioni misere.
Per Laura inconsciamente era un po' un giocarsi il tutto per tutto: o essere respinta per il proprio presentarsi ripugnante e problematica, ripetendo cosi' il tema relazionale psicotico che ha contraddistinto la storia di tutta la sua esistenza, oppure sperare che la richiesta d'aiuto veicolata attraverso il totale abbandono di se' venisse colta al di la' di una apparenza respingente.
In realta' richieste d'aiuto cosi' totali, cosi' costringenti, quasi manipolatorie, inducono nello Psicoterapeuta fantasie del tipo "...e' talmente a pezzi che non ci si puo' non occupare di lei, rischia perfino il suicidio....". Tra l'altro molti di questi pazienti vivono in una dimensione in cui il pensiero simbolico porterebbe a galla componenti molto dolorose dell'esistenza e percio' si sentono obbligati ad agire tutto sul mondo esterno, sul mondo delle cose concrete per poter sopportare l'angoscia interna.
In altre parole, quando parliamo di fantasie di suicidio comunicate dal paziente per coinvolgere lo Psicoterapeuta in una presa in carico totalizzante del se' malato, non abbiamo alcuna garanzia che tali fantasie non possano essere realizzate, giocate nella vita (in inglese to play significa sia giocare che recitare), rappresentate nel mondo come se il mondo fosse una sorta di teatro messo li' apposta per contenere le rappresentazioni del mondo interno. Potremmo assistere cosi' a farse, drammi ma piu' spesso a tragedie, in cui il paziente impersona una o piu' parti e costringe, con la forza del proprio impatto emozionale, chi gli sta vicino a giocare le parti della propria matrice relazionale
I temi variano, cosi' nel caso di Laura abbiamo una madre che abbandona, un padre assente ed impotente che non riesce a salvare la figlia dalle grinfie della madre matrigna, l'eroina che consente di ottundere la testa e lenire cosi' il dolore della depressione ed una serie di figure materne sostitutive che dovrebbero giocare il ruolo di chi riesce trionfalmente a riparare i guasti lasciati da una madre negativa ed abbandonica.
Naturalmente il tema centrale della tragedia di Laura e' costituito dal fallimento ripetitivo di tutte queste figure materne sostitutive, che non daranno mai abbastanza, non riusciranno mai a riparare la mancanza di cure materne, il senso di abbandono, non riusciranno mai a sfatare in Laura la convinzione che se lei e' stata abbandonata e' senz'altro perche' doveva essere indegna della propria mamma, che per un bambino è definitoriamente "buona".
Cosi' Laura con il suo degrado fisico e mentale non fa che perpetuare una testimonianza, non fa che celebrare e ricelebrare cio' che e' gia' avvenuto, l'essere stata abbandonata per "indegnità'" ed il cercare di commuovere (cum motus, ovvero far andare con lei, stare assieme) un sostituto materno che possa accoglierela, tentativo che inevitabilmente fallisce proprio a causa della sporcizia fisica e mentale con cui Laura si presenta.
Cosi', in questa continua rappresentazione, il suicidio puo' essere il tentativo estremo di commuovere un oggetto materno ad occuparsi di lei.
La rappresentazione inconscia usa il mondo come un palcoscenico, quindi esistono concrete possibilita' che la paziente metta in atto un suicidio, lento e sistematico, come se dovesse richiamare l'oggetto amato, una sorta di deus ex machina che arrivi inopinatamente a salvarla.
A differenza di una rappresentazione teatrale, in cui gli effetti pragmatici sono sospesi e rimane solo l'emozione dello spettatore e di chi recita, nella vita un suicidio di questo genere e' spesso portato a termine, cosi' che la rappresentazione si conclude con la morte reale del protagonista.
Decidemmo che avremmo iniziato a lavorare insieme una volta a settimana, conducendo un'esplorazione psicologica della sua realta' che poi avrebbe potuto portare a decidere anche altre forme d'intervento, integrative della psicoterapia o sostitutive, come ad esempio un ingresso in comunita' terapeutica.
Nello stesso tempo Laura iniziava una terapia a metadone, però in maniera scontata, scissa da qualsiasi contestualizzazione dell'intervento farmacologico in un progetto di cura fondato sull'alleanza terapeutica.
Ancora una volta la risposta istituzionale ha fatto ricorso al metadone come strumento "magico", per annullare qualsiasi attribuzione di senso alla relazione con la paziente e, quindi, tacitare le proprie angosce relative al senso di impotenza, di inutilità, di morte.
Il servizio "é intervenuto", e ciò é potuto avvenire nel rispetto di regole, regolamenti, regoline e regolucce.
Il paziente é formalmente in carico, può entrare nelle statistiche da inviare a Regione, Prefettura, Istituto Superiore di Sanità, Ministero della Sanità, ovunque vi siano zelanti funzionari che, per giustificare la propria esistenza dopo una notte trascorsa insonne nella paura del capufficio, si svegliano la mattina e decidono di aumentare il peso della burocrazia per autogiustificare il proprio lavoro.
Laura propone una modalità relazionale disfunzionale ed il servizio la ripaga con la stessa moneta, rimanda specularmente la stessa modalità non introducendo alcuna forma di cambiamento. Tale modalità si fonda sul'uso degli operatori in maniera scissa, per cui se medico ed infermieri assumono simbolicamente la parte speculare e respingente, in quanto somministratori di una sostanza dai poteri magici, lo Psicologo "accoglie" la parte scissa, quindi contenitore passivo di tutte le scorie. 
La scissione vien spesso reificata attraverso la contrapposizione tra parte "medica" e "psicosociale" dell'intervento, fino ad arrivare ad una divisione stretta di temi e spazi fisici. la presenza di meccanismi di identificazione proiettiva si può notare dalla sensazione, diffusa nelle narrazioni degli operatori, che tutto sia "veramente" così e sia impossibile da modificare, esattamente speculare alla sensazione di disperazione e di impotenza della paziente. Naturalmente Laura ne ha già abbastanza delle proprie scissioni, senza dover sopportare le psicopatologie insite nelle ASL, così dopo una settimana abbandona il ricorso al metadone ed i colloqui con me.
Sarà morta? No, fa troppo male chiederselo; meglio dedicarsi alla prossima "accoglienza", alla prossima zuffa con i colleghi, alle prossime imprecazioni sul capo servizio ignorante e maleducato, alle novità sindacali, al conto dei giorni di ferie residue e dello straordinario effettuato, alla lettura e commento approfondito del Corriere dello Sport.". 
Quando compilavo questo scritto nel 1991 ero appena reduce da un viaggio a New York, avevo visitato le Twin Towers ed oggi mi impressiona averle definite, insieme con gli altri grattacieli, "monumento all'insensatezza umana"... pur avendo lavorato anni ed anni nell'area delle tossicodipendenze non mi sono abituato mai a non sapere più nulla di molti pazienti che giocavano così facilmente con la morte... il ricordo di Laura fa ancora male e fa male il pensiero che forse, anzi, probabilmente, 20 anni dopo non fa più parte di questo mondo... o forse si...

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