Uomini, ratti e galline dalle uova d'oro.
Sperimentazione Animale e sostanze d'abuso
di Roberto Mucelli1
Il grosso problema della
sperimentazione animale è di carattere epistemologico ancor prima
che di carattere etico, un problema di filosofia della scienza prima
che di bioetica.
Vorrei per il momento saltare tutta la
querelle bioetica sul benessere e rispetto della vita animale non
umana e considere, a priori ed utilitaristicamente, in via esclusiva
gli interessi della specie Homo Sapiens Sapiens.
Nella ricerca sulle sostanza d'abuso si
utilizzano ancora protocolli neopositivisti basati su una visione del
mondo causa-effetto piuttosto che su una epistemologia della
complessità.
Alcuni lavori sperimentali sulle
sostanze d'abuso hanno la stessa struttura logica di quelli della
microbiologia studiata in vitro, ovvero seguono delle regole
morfologico-sintattiche e stilistiche caratteristiche delle
letteratura scientifica più diffusa.
Si tende ad isolare dei fattori e a
studiarli separatamente dal contesto che li genera, come se non
fossero esistite le rivoluzioni nei paradigmi scientifici avvenute
sin dai primi anni del secolo scorso.
Qualsiasi risultato provenga da questo
tipo di studi sulle sostanze d'abuso è da ritenersi inattendibile ed
inapplicabile alla clinica perchè non tiene conto della complessità,
della reticolarità e della multidimensionalità logica del fenomeno,
come insegna Bertrand Russell2
nella sua teoria dei Tipi Logici poi ripresa da Gregory Bateson3
.
Stiamo parlando di paradigmi
scientifici non recenti, originatisi già nella prima metà dello
scorso secolo, mentre la ricerca sulle sostanze d'abuso che utilizza
la SA si rifà addirittura a paradigmi di tipo illuminista.
Consideriamo un paper, pubblicato
sul prestigioso sito del National Institute of Drug Abuse, NIDA, a
titolo esemplificativo:
Dr.
Billy Chen, Dr. Antonello Bonci, and colleagues at the NIDA
Intramural Research Program (IRP) in Baltimore, Maryland
L'idea
del Dott. Chen e dei suoi colleghi è che la corteccia prefrontale
PFC giochi un ruolo determinante nella differenza tra il “semplice”
uso di cocaina da una parte e la addiction e l'uso compulsivo
dall'altra.
Infatti,
solo 1 persona su 5 passa dall' uso
all'abuso che comporta
addiction e ricerca compulsiva dell'assunzione della sostanza.
Come
ben sa chiunque abbia investigato questi fenomeni e chi, come il
sottoscritto, ha lavorato per 30 anni con pazienti che utilizzano
sostanze d'abuso, il fenomeno va indagato secondo il paradigma della
complessità:
- anzitutto la differenza tra uso e abuso (secondo i criteri del DSM 54) non è un parametro stabile, un orientamento fisso della persona ma può oscillare nel corso della vita, ovvero un individuo può transitare, in momenti diversi dalla condizione di uso a quella di abuso e viceversa;
- fattori come le condizioni psicosociali, la struttura di personalità, i Modelli Operativi Interni dell'Attaccamento, la concomitanza di psicopatologie sono mediatori importanti e condizionano fortemente gli stili di assunzione;
- la storia dei trattamenti ricevuti e la qualità/quantità di relazione con i servizi per il trattamento condiziona fortemente i modelli di relazione con la sostanza d'abuso.
Basta
aver letto qualcosa di divulgativo sulle Neuroscienze per sapere che
eventuali deficit o iperattività funzionale della PFC sono da
ascrivere alla plasticità dei sistemi neuronali e quindi alla
complessità dell'interazione dell'organismo con il suo ambiente,
tranne che si considerino deficit neurologici primari ed importanti
come la Sindrome Frontale o disturbi del genere, che comunque sono
suscettibili di miglioramenti in condizioni ambientali e relazionali
favorevoli.
Già
tentare di ascrivere l'orientamento individuale verso l'uso o l'abuso
ad una particolare configurazione del funzionamento del PFC
rappresenta non solo una operazione di riduzionismo epistemologico,
che avrebbe comunque il suo senso, ma una vera e propria
mistificazione, laddove, anche volendo ragionare in termini di causa
ed effetto, si scambiano gli effetti per le cause e non si tiene
conto non solo della complessità psicosociale, ma nemmeno della
complessità interna all'organismo considerato limitatamente al suo
essere biologico, ovvero non si tiene conto delle interazioni
relative a neuromediatori e neuromodulatori ed ai loro rapporti con
il sistema endocrino ed immunitario.
Nell'esperimento
poi emerge una chiara sottovalutazione della plasticità della
risposta dei ratti agli stimoli ambientali.
I
ricercatori addestrarono i ratti a premere due leve in successione
per ricevere infusioni di cocaina. Premere la prima leva dava
accesso alla seconda leva che a sua volta permetteva ai ratti di
ricevere la cocaina.
Gli
animali compivano sessioni giornaliere di addestramento, nel corso
delle quali ricevevano fino a 30 infusioni.
Dopo
due mesi i ricercatori aggiunsero una scossa elettrica che colpiva i
piedi dei ratti quando abbassavano la prima leva. Nelle intenzioni
dei ricercatori la somministrazione della scossa elettrica sarebbe
servita a distinguere i ratti che cercavano la droga compulsivamente
da quelli che non la cercavano.
Dopo
quattro giorni il 30% dei ratti continuava a cercare cocaina
nonostante la scossa elettrica ai piedi, mentre l'altro 70% smise di
cercare cocaina e si ritirò spavantato sul fondo della gabbia.
La
sorprendente e sbrigativa estrapolazione dei ricercatori è stata che
il 30% dei ratti che cercavano cocaina aveva un comportamento
compulsivo.
Evidentemente
i ricercatori non hanno la minima cognizione di come possa funzionare
una mente animale, soprattutto di un animale che non è un predatore
ma una preda, perciò attentissimo ai pericoli ambientali. Alcune
prede (anche i predatori che solo a loro volta prede) presentano una
sensibilità agli stimoli ambientali maggiore di altre e perciò
tendono ad avere più facilmente reazioni di paura.
Questo
avviene anche negli animali umani, tanto che negli studi sulle
sostanze d'abuso vengono identificati dei profili detti “risk
taking” per cui alcune
persone, soprattutto in adolescenza, sono più a rischio di abuso di
sostanze proprio per la loro maggiore tendenza di altre a prendersi
dei rischi.
Se
avessero voluto dare valore all'esperimento avrebbero dovuto
utilizzare ratti preventivamente testati sul risk taking ed
appartenenti alla stessa categorizzazione, non ratti presi a caso!
I
ricercatori poi esaminarono i neuroni nella area pre-limbica della
PFC dei ratti, sostenendo che “this area corresponds to the dorsal
lateral prefrontal cortex in the human PFC”.
L'assimilazione
tout court del cervello di un ratto a quello di un umano rimane per
me un'operazione sconcertante, tale è la diversità di umwelt,
per citare Von Uexnkull5,
tra le due specie.
I
neuroni prelimbici dei ratti definiti “compulsivi” erano
significativamente meno eccitabili di quelli dei “non compulsivi”,
tanto che dovevano essere sottoposti ad una quantità di corrente
almeno doppia per generare un potenziale d'azione.
Il
dott. Chen da questo deduce che “... in a compulsive rat , the PFC
is unable to relay the information that pressing the seek lever is
associated with a foot shock, rendering the animal unable to stop
itself”.
Peccato
che lo stesso Chen deve ammettere che l'uso stesso di cocaina, come è
noto, rende i neuroni PFC meno eccitabili, ovvero conduce ad una
perdita generale di controllo, e si pone la fatidica domanda: “Which
comes first, the deficient PFC or the drug use?” alla
quale, nei modelli sperimentali causa-effetto, non è possibile
rispondere per la evidente caduta in un vizio di circolarità infinita.
Chen,
sorvolando allegramente su problemi epistemologici di non poco conto,
rivela poi la sua scoperta.
L'optogenetica
utilizza proteine sensibili alla luce per controllare la scarica di
neuroni individuali o di piccoli gruppi di neuroni in animali vivi.
Hanno
fatto in modo che i neuroni prelimbici dei ratti esprimessero la
proteina Chr-2. Esponendo poi questi neuroni, attraverso un impianto di fibra
ottica, ad una determinata frequenza di luce, ottennero delle
scariche neuronali.
Attivati
in questo modo, i neuroni prelimbici della PFC restauravano nei ratti
il senso di giudizio ed impedivano che si andassero a prendere la
scossa per di ricevere la cocaina.
Questo
risultato, indubbiamente affascinante, fu semplicisticamente
trasportato a soggetti umani.
In un
pilot trial del novembre 2016 Antonello Bonci, Alberto Terraneo, e
Luigi Galimberti somministrarono un trattamento di TMS (Transcranial
Magnetic Stimulation) a 16 pazienti in una clinica ambulatoriale a
Padova.
I 16
pazienti furono studiati per 21 giorni. Al 9 giorno iniziarono i
controlli attraverso i campioni di urine, ed il 69% dei pazienti
trattati con TMS presentarono esami delle urine negative, contro solo
il 19% del gruppo di controllo, trattato con normali ansiolitici ed
antidepressivi.
In
seguito anche i pazienti del gruppo di controllo furono trattati con
TMS, mostrando risultati simili ai pazienti del primo gruppo
sperimentale.
I
ricercatori mantennero i contatti con la maggior parte dei pazienti
coinvolti nello studio.
Riportiamo
le parole del Dott. Bonci: ““While this observation is
not part of a rigorous clinical trial follow-up, and should be taken
cautiously, the majority of patients who achieved abstinence during
the stimulation pilot protocol report that they have maintained that
abstinence for more than 2 years. During that time, some patients
have requested additional TMS therapy once a week, twice a month, or
monthly, and patients can always request additional therapy if they
experience cravings. Others report that they have maintained
abstinence without additional TMS after the initial set of
treatments.”
Ed il gioco è
fatto, il modo in cui viene condotta la narrazione dei fatti, come
insegna Alessandro Baricco6,
è fondamentale per l'impressione lasciata nel lettore e
nell'ascoltatore.
Il disclaimer
iniziale di Bonci è apprezzato e d'obbligo ma, mentre la folla a
questo punto osanna al miracolo, ed il miracolo è nato dalla
sperimentazione animale, pur dolorosa, ma indispensabile punto di
partenza, senza la quale Alessandro Magno non avrebbe potuto
conquistare l'Asia minore.
Da persona che
tanto ha lavorato tanto con pazienti affetti da dipendenze
patologiche e da umile studente di filosofia della scienza non posso
non sottolineare il misterioso salto metodologico, la trasposizione
tout court dagli animali all'uomo.
Un lettore attento,
con un mimino di preparazione e dotato di una base di pensiero
riflessivo non darebbe per scontato questo salto narrativo, e
andrebbe piuttosto a coltivare un sospetto, che la sperimentazione
animale serva non come fatto ma come narrazione, un racconto di
presunta efficacia di una determinato trattamento che si può allora
sperimentare sull'uomo.
Attenzione, si
tratta di un salto narrativo di una certa importanza e di un certo
effetto, che predispone il lettore ad accettare la sperimentazione
umana, quando dal punto di visto epistemologico, logico e di
metodologia della scienza SA ed SU non mostrano legami, se non
flebili ed estremamente ipotetici.
Il trionfalismo,
appena moderato da un pudico ed ipocrita disclaimer iniziale, sui
risultati della sperimentazione umana, sottace molti fattori
esaminabili invece all'interno i un paradigma scientifico complesso,
non riducibile ad una narrazione del tipo “a trattamento x
corrisponde il risultato y.
Nemmeno voglio
citare la esiguità del campione, mi si risponderebbe facilmente che
si tratta di uno studio pilota.
Ma....
- Come sono stati selezionati quei 16 pazienti che hanno aderito allo studio tra tutti quelli che afferiscono al servizio? Casualmente? Su base volontaria? Se fossero volontari, come penso sia inevitabile, potrebbero aver risposto i più desiderosi ed i più motivati a curarsi, quelli che maggiormente possono affidarsi con fiducia ad un trattamento nuovo e sperimentale e perciò denotano già un buon rapporto con il personale. Una buona compliance ed una buona relazione sono notoriamente correlati ad un buon outcome, pur se momentaneo.
- Come estrapolare i risultati agli altri pazienti che afferiscono al servizio e non hanno aderito allo studio ed ancor di più a tutte le persone che usano cocaina nell'area di Padova, in Italia, in Europa, nel Mondo?
- Come sono stati effettuati i prelievi di urine per attestare la condizione drug free per quanto riguarda la cocaina? Ho personalmente visto ricorrere a veri giochi di prestigio per portare urine “pulite” ma non proprie e così compiacere il personale dei servizi. Ho visto cose che voi umani non potete nemmeno immaginare...
- Si son testati i pazienti per il drug free da cocaina, ma è stato effettuato il test per altre sostanze d'abuso? Ovvero, siamo sicuri che in quel periodo i pazienti non sono ricorsi ad altre sostanze per sostenere l'astinenza da cocaina?
- I modelli di assunzione di cocaina e la relativa astinenza sono molto diversi dalla astinenza da eroina ed anche da quella da nicotina e tabacco. Il paziente, anche quello definito compulsivo, può tranquillamente far trascorrere tre settimane da un'assunzione all'altra. Come nello studio. Molti pazienti dalla assunzione compulsiva e dal forte craving possono non sentire il bisogno di assumere cocaina durante le vacanze con la moglie ed i bambini e durante una fase favorevole della psicoterapia. E' un andamento a pousses, diverso da dipendenti da eroina, da tabacco e da THC che necessitano di somministrazioni continue.
- Nella valutazione dei risultati si è tenuto conto che l'unico fattore collegato con l'outcome dalle sostanze d'abuso è il tempo trascorso in relazione significativa con i servizi (fonte: NIDA)? Perchè in questo caso mi chiederei se la condizione cocain-free (non sappiamo però se assumevano altre droghe o psicofarmaci) più che alla somministrazione di TMS potrebbe essere legata al contatto significativo con persone che fanno ricerca e si prodigano per loro.
Potrei continuare
all'infinito con le domande, ma ne faccio grazia, consapevole che non
esiste la sperimentazione perfetta, ed anche perchè non me la sto
prendendo con quei ricercatori, ma con un modo di pensare e fare
scienza.
Infatti, lo sforzo
di inserire la sperimentazione all'interno di paradigmi scientifici
almeno novecenteschi invece che settecenteschi, se non addirittura
baconiani, potrebbe pur essere fatto.
Oggi sulle sostanze
d'abuso si fa ricerca utilizzando i metodi informatici delle reti
neurali all'interno del paradigma della complessità.
Magari i risultati
del lavoro preso in esame sono suggestivi, non me la prendo con i
ricercatori, nulla di personale.
Però occorre
chiedersi quante risorse economiche vengano indirizzate verso
ricerche sostenute da paradigmi oramai obsoleti, nella speranza che
si trovi il farmaco o il trattamento miracoloso che poi si
rivelerebbe la gallina dalle uova d'oro.
La bufala della
mappatura del genoma umano non è stata sufficiente e svegliare gli
animi e disincantare verso questo modo di fare ricerca ed
informazione scientifica.
La ricerca sulla
mappatura del genoma umano ha assorbito più risorse dei programmi
spaziali. Speravano di renderci consapevoli di tutte le malattie che
avremmo avuto, e di spingerci a curarle in anticipo; senza contare il
massiccio ricorso agli ansiolitici ed ai trattamenti psichiatrici che
avrebbe comportato la certezza di morire di cancro al tal' organo o
al tal' altro entro 10 anni.
Proprio
l'interazione con l'ambiente, l'epigenetica e l'estrema complessità
dei processi che presiedono allo sviluppo di una malattia ci ha
salvato.
Ma la narrazione
che girò sul tema fu potente ed evocativa, nessuno includeva in
questa narrazione che il DNA non codificante, ovvero il 95% del DNA,
veniva definito “Junk DNA”, perchè non sapevano come spiegarlo.
Oggi sappiamo che
il DNA non codificante ha un'importante funzione regolativa, dato ceh
l'informazione non passa in maniera asimmetrica dal DNA all'RNA ed
alle proteine, ma passa anche dalle proteine al DNA, con la funzione
di regolare, ovvero silenziare od esprimere pool genetici.
Tutta la bufala
della mappatura genetica con la possibilità di prevedere le malattie
si basava sullo studio del 5% del DNA. Questo non era incluso nella
narrazione dominante.
Con Alessandro
Baricco, non mi illudo che esistano fatti separati dalle narrazioni
possibili, la realtà è un misto di fatti e narrazioni.
E la mia è una
narrazione sulla narrazione dominante, è la voce del bambino, o del
pazzo, che urla “il Re è nudo”.
Quando la madre
del giovane Guy de Maupassant chiese a Flaubert di insegnare al
figlio come si scrive, Flaubert rispose che Guy avrebbe dovuto
osservare e descrivere, ad esempio un albero, come se fosse stato il
primo uomo sulla Terra a vederlo.
Ed io così voglio
vedere la sperimentazione animale, individuando una semplicistica
trasposizione ed un salto logico che salterebbe agli occhi di tutti,
se esaminassimo il problema per la prima volta e con occhi innocenti.
Insisto nel parlare
di ontologia ed epistemologia e non di etica, perchè nella società
liquida descritta da Bauman7
sono previste tribù etiche che hanno egual diritto, ma diversa voce
in capitolo secondo gli interessi finanziari che riescono ad
influenzare.
Quindi con l'etica
non se ne viene fuori.
Dobbiamo quindi
chiederci se è ontologicamente possibile assimilare animali umani e
non umani e se è epistemologicamente appropriato basare la nostra
speranza di salute su paradigmi scientifici quanto meno obsoleti e su
narrazioni interessate a scovare la pietra filosofale, ovvero trovare
il modo di trasformare in oro qualsiasi metallo, perdendo così la
complessità dell'esistere.
Per
finire, riguardo alla sostanze d'abuso e di quanto sia illusoria o
strumentale la riduzione del trattamento ad uno schema organicistico,
vorrei citare le parole di Luigi Cancrini8,
autorità indiscussa nel campo, scritte nel 1987 ma, purtroppo,
ancora valide:
“La terapia delle tossicodipendenze è un problema di Psicologia
Clinica?
L'assetto dei servizi, la loro gerarchia interna, le indicazioni che vengono dal modo in cui vengono spesi soldi, pubblici e privati, sembrano proporre risposte negative a questo quesito. I giornali sono pieni di notizie relative alla disintossicazione rapida e e ai grandi educatori o a personaggi istrionici che si travestono da grandi educatori.
L'assetto dei servizi, la loro gerarchia interna, le indicazioni che vengono dal modo in cui vengono spesi soldi, pubblici e privati, sembrano proporre risposte negative a questo quesito. I giornali sono pieni di notizie relative alla disintossicazione rapida e e ai grandi educatori o a personaggi istrionici che si travestono da grandi educatori.
Nelle facoltà di medicina, il
capitolo sulle tossicodipendenze è affrontato, di scorcio, dei
programmi di farmacologia. Le famiglie vengono spinte sempre più
spesso a organizzare strutture di controllo e la ricerca della droga
nelle urine è diventata routine nei laboratori di analisi: si
cercavano lì, un tempo, quando le persone erano importanti per il
medico di famiglia, le tracce d'albumina, si cercano lì oggi,
correntemente, le tracce di tetraidrocannabinolo (nostro figlio ha
fumato uno spinello?) o di eroina (sì è fatto? È tossicomane?).
Eppure......
Osservato dal punto di vista di chi
conosce il problema, l'insieme delle tendenze elencate qui sopra si
propone, in effetti, come il frutto di un malinteso. Di un errore
catalogabile sul versante degli imbrogli a parte di chi ci fa soldi
(l'industria farmaceutica che produce e vende miliardi di lire di
reattivi per l'analisi delle urine e del sangue; medici sprovveduti
ma non tanto che continuano a promettere guarigioni basate su
interventi di tipo farmacologico); su quello dell'ingenuità da parte
di chi i soldi li spende inseguendo fantasie di guarigione o di
redenzione; su quello dell'ignoranza (o della mancanza di
informazioni utili) dalla parte degli amministratori e dei
giornalisti che continuano a negare il problema cruciale del
tossicomane e che è appunto un problema di psicologia clinica, e che
continuano a saldare il cerchio (a fare da tramite o da mezzani) fa
ignoranti furbi e e ignoranti da loro ingannati, fra guaritori e
vittime del malinteso.
Un libro come quello che ho il
piacere di presentare potrebbe essere importante, mi pare,
soprattutto per questo. Portando al centro dell'attenzione la persona
(invece delle sostanze) esso consente di fornire informazioni utili
in tema di dipendenza e di terapia della dipendenza a tutti quelli
che (giornalisti o medici, educatori parenti o teorici) avranno il
tempo di leggerlo: consentendo loro di sciogliere (dentro di sé:
prima di tutto dentro di sé) il malinteso della cultura in cui ci
troviamo immersi su cui si basa, oggi, la complicità sostanziale fra
un sistema culturale (antropologicamente: della cultura in cui ci
troviamo immersi) e le organizzazioni delinquenziali del
narcotraffico.
Organizzazioni cui niente di meglio
si potrebbe offrire, per potenziare o mantenere le loro attività, di
una prevenzione basata sulla favola di cappuccetto rosso (il bambino
che se ne vada solo viene ingannato da lupo che offre droga) e di una
terapia basata su quella di Cenerentola (la fata e il principe: un
miracolo che viene da fuori liberando la persona da una schiavitù
che è esterna a lei).
Duro e paziente, il lavoro dello
Psicologo Clinico richiede tutt'altro tipo di impegno o di
conoscenza.
Richiede, soprattutto, capacità di
cercare e leggere, nel profondo delle persone, la storia del
conflitto su cui esse si sono bloccate.
Di riprendere il filo smarrito di
un'esistenza sospesa dalla consuetudine della droga.
Come accadeva in un'altra fiaba,
quella che si richiamava al sonno senza tempo della bella
addormentata, lavorando per
incontrare, dopo averne seguito a lungo le tracce nella selva ricca
di rovi e di spini, di buio e di angosce, la persona che ha perso il
senso della sua vita. Accompagnandolo fuori dal bosco all'interno di
uno sforzo graduale e paziente che è la parte più faticosa della
risoluzione (quella da non raccontare ai bambini) e che si chiama
comunque, qualunque sia il setting all'interno della quale la si
istituisce, psicoterapia. Utilizzando gli strumenti che sono quelli
su cui si basano (dovrebbero basarsi) la formazione e la competenza
dello Psicologo Clinico.
Di colui che intuisce e poi conosce
(avventura che si rinnova ogni volta) i percorsi interni di una
scelta e di un blocco, di un bisogno e di una impossibilità
nascosta, insieme, dietro una dipendenza da droga.
1Docente
a contratto di Modelli Clinici delle Dipendenze presso la Scuola di
Specializzazione in Psicologia Clinica della Facoltà di Medicina e
Psicologia dell'Università di Roma La Sapienza. Psicoterapeuta ad
orientamento psicoanalitico. Studente presso il corso di Laurea in
Scienze Filosofiche dell'Università Statale di Macerata.
roberto.mucelli@uniroma1.it
2
WITHEHEAD Alfred North, RUSSEL Bertrand, 1950, Principia
Mathematica, 2a
ed. vol 1 Cambridge University Press, London
3BATESON
Gregory, 1972, Steps to an ecology of mind,
Chandler Publishing Company; tr. it. Verso un'ecologia
della mente, Adelphi, Milano,
1976
4Diagnostic
and Statistical Manual of Mental Disorders, 2013, American
Psychiatric Association
5CIMATTI
Felice, Filosofia dell'animalità,
Laterza, Bari 2013
6BARICCO
Alessandro, 2017, Alessandro Magno. Sulla narrazione,
Mantova Lectures
7BAUMAN
Zygmunt, Modernità liquida, Laterza,
Bari, 2006
8
La terapia delle tossicodipendenze è un problema di Psicologia
Clinica?
Introduzione di
Luigi CANCRINI a Roberto MUCELLI, Guglielmo MASCI (1996): "
Tossicodipendenze: curare, guarire, assistere. Lo Psicologo Clinico
lavoro " Angeli, Milano.)