domenica 12 marzo 2017

Uomini, ratti e galline dalle uova d'oro. Sperimentazione Animale e sostanze d'abuso


Uomini, ratti e galline dalle uova d'oro.

Sperimentazione Animale e sostanze d'abuso



di Roberto Mucelli1


Il grosso problema della sperimentazione animale è di carattere epistemologico ancor prima che di carattere etico, un problema di filosofia della scienza prima che di bioetica.

Vorrei per il momento saltare tutta la querelle bioetica sul benessere e rispetto della vita animale non umana e considere, a priori ed utilitaristicamente, in via esclusiva gli interessi della specie Homo Sapiens Sapiens.

Nella ricerca sulle sostanza d'abuso si utilizzano ancora protocolli neopositivisti basati su una visione del mondo causa-effetto piuttosto che su una epistemologia della complessità.

Alcuni lavori sperimentali sulle sostanze d'abuso hanno la stessa struttura logica di quelli della microbiologia studiata in vitro, ovvero seguono delle regole morfologico-sintattiche e stilistiche caratteristiche delle letteratura scientifica più diffusa.

Si tende ad isolare dei fattori e a studiarli separatamente dal contesto che li genera, come se non fossero esistite le rivoluzioni nei paradigmi scientifici avvenute sin dai primi anni del secolo scorso.

Qualsiasi risultato provenga da questo tipo di studi sulle sostanze d'abuso è da ritenersi inattendibile ed inapplicabile alla clinica perchè non tiene conto della complessità, della reticolarità e della multidimensionalità logica del fenomeno, come insegna Bertrand Russell2 nella sua teoria dei Tipi Logici poi ripresa da Gregory Bateson3 .

Stiamo parlando di paradigmi scientifici non recenti, originatisi già nella prima metà dello scorso secolo, mentre la ricerca sulle sostanze d'abuso che utilizza la SA si rifà addirittura a paradigmi di tipo illuminista.

Consideriamo un paper, pubblicato sul prestigioso sito del National Institute of Drug Abuse, NIDA, a titolo esemplificativo:

Prefrontal Cortex Stimulation Stops Compulsive Drug Seeking in Rats

Dr. Billy Chen, Dr. Antonello Bonci, and colleagues at the NIDA Intramural Research Program (IRP) in Baltimore, Maryland


L'idea del Dott. Chen e dei suoi colleghi è che la corteccia prefrontale PFC giochi un ruolo determinante nella differenza tra il “semplice” uso di cocaina da una parte e la addiction e l'uso compulsivo dall'altra.

Infatti, solo 1 persona su 5 passa dall' uso all'abuso che comporta addiction e ricerca compulsiva dell'assunzione della sostanza.

Come ben sa chiunque abbia investigato questi fenomeni e chi, come il sottoscritto, ha lavorato per 30 anni con pazienti che utilizzano sostanze d'abuso, il fenomeno va indagato secondo il paradigma della complessità:
  • anzitutto la differenza tra uso e abuso (secondo i criteri del DSM 54) non è un parametro stabile, un orientamento fisso della persona ma può oscillare nel corso della vita, ovvero un individuo può transitare, in momenti diversi dalla condizione di uso a quella di abuso e viceversa;
  • fattori come le condizioni psicosociali, la struttura di personalità, i Modelli Operativi Interni dell'Attaccamento, la concomitanza di psicopatologie sono mediatori importanti e condizionano fortemente gli stili di assunzione;
  • la storia dei trattamenti ricevuti e la qualità/quantità di relazione con i servizi per il trattamento condiziona fortemente i modelli di relazione con la sostanza d'abuso.

Basta aver letto qualcosa di divulgativo sulle Neuroscienze per sapere che eventuali deficit o iperattività funzionale della PFC sono da ascrivere alla plasticità dei sistemi neuronali e quindi alla complessità dell'interazione dell'organismo con il suo ambiente, tranne che si considerino deficit neurologici primari ed importanti come la Sindrome Frontale o disturbi del genere, che comunque sono suscettibili di miglioramenti in condizioni ambientali e relazionali favorevoli.

Già tentare di ascrivere l'orientamento individuale verso l'uso o l'abuso ad una particolare configurazione del funzionamento del PFC rappresenta non solo una operazione di riduzionismo epistemologico, che avrebbe comunque il suo senso, ma una vera e propria mistificazione, laddove, anche volendo ragionare in termini di causa ed effetto, si scambiano gli effetti per le cause e non si tiene conto non solo della complessità psicosociale, ma nemmeno della complessità interna all'organismo considerato limitatamente al suo essere biologico, ovvero non si tiene conto delle interazioni relative a neuromediatori e neuromodulatori ed ai loro rapporti con il sistema endocrino ed immunitario.

Nell'esperimento poi emerge una chiara sottovalutazione della plasticità della risposta dei ratti agli stimoli ambientali.

I ricercatori addestrarono i ratti a premere due leve in successione per ricevere infusioni di cocaina. Premere la prima leva dava accesso alla seconda leva che a sua volta permetteva ai ratti di ricevere la cocaina.

Gli animali compivano sessioni giornaliere di addestramento, nel corso delle quali ricevevano fino a 30 infusioni.

Dopo due mesi i ricercatori aggiunsero una scossa elettrica che colpiva i piedi dei ratti quando abbassavano la prima leva. Nelle intenzioni dei ricercatori la somministrazione della scossa elettrica sarebbe servita a distinguere i ratti che cercavano la droga compulsivamente da quelli che non la cercavano.

Dopo quattro giorni il 30% dei ratti continuava a cercare cocaina nonostante la scossa elettrica ai piedi, mentre l'altro 70% smise di cercare cocaina e si ritirò spavantato sul fondo della gabbia.

La sorprendente e sbrigativa estrapolazione dei ricercatori è stata che il 30% dei ratti che cercavano cocaina aveva un comportamento compulsivo.

Evidentemente i ricercatori non hanno la minima cognizione di come possa funzionare una mente animale, soprattutto di un animale che non è un predatore ma una preda, perciò attentissimo ai pericoli ambientali. Alcune prede (anche i predatori che solo a loro volta prede) presentano una sensibilità agli stimoli ambientali maggiore di altre e perciò tendono ad avere più facilmente reazioni di paura.

Questo avviene anche negli animali umani, tanto che negli studi sulle sostanze d'abuso vengono identificati dei profili detti “risk taking” per cui alcune persone, soprattutto in adolescenza, sono più a rischio di abuso di sostanze proprio per la loro maggiore tendenza di altre a prendersi dei rischi.

Se avessero voluto dare valore all'esperimento avrebbero dovuto utilizzare ratti preventivamente testati sul risk taking ed appartenenti alla stessa categorizzazione, non ratti presi a caso!

I ricercatori poi esaminarono i neuroni nella area pre-limbica della PFC dei ratti, sostenendo che “this area corresponds to the dorsal lateral prefrontal cortex in the human PFC”.
L'assimilazione tout court del cervello di un ratto a quello di un umano rimane per me un'operazione sconcertante, tale è la diversità di umwelt, per citare Von Uexnkull5, tra le due specie.

I neuroni prelimbici dei ratti definiti “compulsivi” erano significativamente meno eccitabili di quelli dei “non compulsivi”, tanto che dovevano essere sottoposti ad una quantità di corrente almeno doppia per generare un potenziale d'azione.

Il dott. Chen da questo deduce che “... in a compulsive rat , the PFC is unable to relay the information that pressing the seek lever is associated with a foot shock, rendering the animal unable to stop itself”.

Peccato che lo stesso Chen deve ammettere che l'uso stesso di cocaina, come è noto, rende i neuroni PFC meno eccitabili, ovvero conduce ad una perdita generale di controllo, e si pone la fatidica domanda: “Which comes first, the deficient PFC or the drug use?” alla quale, nei modelli sperimentali causa-effetto, non è possibile rispondere per la evidente caduta in un vizio di circolarità infinita.

Chen, sorvolando allegramente su problemi epistemologici di non poco conto, rivela poi la sua scoperta.

L'optogenetica utilizza proteine sensibili alla luce per controllare la scarica di neuroni individuali o di piccoli gruppi di neuroni in animali vivi.

Hanno fatto in modo che i neuroni prelimbici dei ratti esprimessero la proteina Chr-2. Esponendo poi questi neuroni, attraverso un impianto di fibra ottica, ad una determinata frequenza di luce, ottennero delle scariche neuronali.

Attivati in questo modo, i neuroni prelimbici della PFC restauravano nei ratti il senso di giudizio ed impedivano che si andassero a prendere la scossa per di ricevere la cocaina.

Questo risultato, indubbiamente affascinante, fu semplicisticamente trasportato a soggetti umani.

In un pilot trial del novembre 2016 Antonello Bonci, Alberto Terraneo, e Luigi Galimberti somministrarono un trattamento di TMS (Transcranial Magnetic Stimulation) a 16 pazienti in una clinica ambulatoriale a Padova.

I 16 pazienti furono studiati per 21 giorni. Al 9 giorno iniziarono i controlli attraverso i campioni di urine, ed il 69% dei pazienti trattati con TMS presentarono esami delle urine negative, contro solo il 19% del gruppo di controllo, trattato con normali ansiolitici ed antidepressivi.

In seguito anche i pazienti del gruppo di controllo furono trattati con TMS, mostrando risultati simili ai pazienti del primo gruppo sperimentale.

I ricercatori mantennero i contatti con la maggior parte dei pazienti coinvolti nello studio.

Riportiamo le parole del Dott. Bonci: ““While this observation is not part of a rigorous clinical trial follow-up, and should be taken cautiously, the majority of patients who achieved abstinence during the stimulation pilot protocol report that they have maintained that abstinence for more than 2 years. During that time, some patients have requested additional TMS therapy once a week, twice a month, or monthly, and patients can always request additional therapy if they experience cravings. Others report that they have maintained abstinence without additional TMS after the initial set of treatments.”

Ed il gioco è fatto, il modo in cui viene condotta la narrazione dei fatti, come insegna Alessandro Baricco6, è fondamentale per l'impressione lasciata nel lettore e nell'ascoltatore.

Il disclaimer iniziale di Bonci è apprezzato e d'obbligo ma, mentre la folla a questo punto osanna al miracolo, ed il miracolo è nato dalla sperimentazione animale, pur dolorosa, ma indispensabile punto di partenza, senza la quale Alessandro Magno non avrebbe potuto conquistare l'Asia minore.

Da persona che tanto ha lavorato tanto con pazienti affetti da dipendenze patologiche e da umile studente di filosofia della scienza non posso non sottolineare il misterioso salto metodologico, la trasposizione tout court dagli animali all'uomo.

Un lettore attento, con un mimino di preparazione e dotato di una base di pensiero riflessivo non darebbe per scontato questo salto narrativo, e andrebbe piuttosto a coltivare un sospetto, che la sperimentazione animale serva non come fatto ma come narrazione, un racconto di presunta efficacia di una determinato trattamento che si può allora sperimentare sull'uomo.

Attenzione, si tratta di un salto narrativo di una certa importanza e di un certo effetto, che predispone il lettore ad accettare la sperimentazione umana, quando dal punto di visto epistemologico, logico e di metodologia della scienza SA ed SU non mostrano legami, se non flebili ed estremamente ipotetici.

Il trionfalismo, appena moderato da un pudico ed ipocrita disclaimer iniziale, sui risultati della sperimentazione umana, sottace molti fattori esaminabili invece all'interno i un paradigma scientifico complesso, non riducibile ad una narrazione del tipo “a trattamento x corrisponde il risultato y.

Nemmeno voglio citare la esiguità del campione, mi si risponderebbe facilmente che si tratta di uno studio pilota.


Ma....

  • Come sono stati selezionati quei 16 pazienti che hanno aderito allo studio tra tutti quelli che afferiscono al servizio? Casualmente? Su base volontaria? Se fossero volontari, come penso sia inevitabile, potrebbero aver risposto i più desiderosi ed i più motivati a curarsi, quelli che maggiormente possono affidarsi con fiducia ad un trattamento nuovo e sperimentale e perciò denotano già un buon rapporto con il personale. Una buona compliance ed una buona relazione sono notoriamente correlati ad un buon outcome, pur se momentaneo.
  • Come estrapolare i risultati agli altri pazienti che afferiscono al servizio e non hanno aderito allo studio ed ancor di più a tutte le persone che usano cocaina nell'area di Padova, in Italia, in Europa, nel Mondo?
  • Come sono stati effettuati i prelievi di urine per attestare la condizione drug free per quanto riguarda la cocaina? Ho personalmente visto ricorrere a veri giochi di prestigio per portare urine “pulite” ma non proprie e così compiacere il personale dei servizi. Ho visto cose che voi umani non potete nemmeno immaginare...
  • Si son testati i pazienti per il drug free da cocaina, ma è stato effettuato il test per altre sostanze d'abuso? Ovvero, siamo sicuri che in quel periodo i pazienti non sono ricorsi ad altre sostanze per sostenere l'astinenza da cocaina?
  • I modelli di assunzione di cocaina e la relativa astinenza sono molto diversi dalla astinenza da eroina ed anche da quella da nicotina e tabacco. Il paziente, anche quello definito compulsivo, può tranquillamente far trascorrere tre settimane da un'assunzione all'altra. Come nello studio. Molti pazienti dalla assunzione compulsiva e dal forte craving possono non sentire il bisogno di assumere cocaina durante le vacanze con la moglie ed i bambini e durante una fase favorevole della psicoterapia. E' un andamento a pousses, diverso da dipendenti da eroina, da tabacco e da THC che necessitano di somministrazioni continue.
  • Nella valutazione dei risultati si è tenuto conto che l'unico fattore collegato con l'outcome dalle sostanze d'abuso è il tempo trascorso in relazione significativa con i servizi (fonte: NIDA)? Perchè in questo caso mi chiederei se la condizione cocain-free (non sappiamo però se assumevano altre droghe o psicofarmaci) più che alla somministrazione di TMS potrebbe essere legata al contatto significativo con persone che fanno ricerca e si prodigano per loro.
Potrei continuare all'infinito con le domande, ma ne faccio grazia, consapevole che non esiste la sperimentazione perfetta, ed anche perchè non me la sto prendendo con quei ricercatori, ma con un modo di pensare e fare scienza.

Infatti, lo sforzo di inserire la sperimentazione all'interno di paradigmi scientifici almeno novecenteschi invece che settecenteschi, se non addirittura baconiani, potrebbe pur essere fatto.

Oggi sulle sostanze d'abuso si fa ricerca utilizzando i metodi informatici delle reti neurali all'interno del paradigma della complessità.

Magari i risultati del lavoro preso in esame sono suggestivi, non me la prendo con i ricercatori, nulla di personale.

Però occorre chiedersi quante risorse economiche vengano indirizzate verso ricerche sostenute da paradigmi oramai obsoleti, nella speranza che si trovi il farmaco o il trattamento miracoloso che poi si rivelerebbe la gallina dalle uova d'oro.

La bufala della mappatura del genoma umano non è stata sufficiente e svegliare gli animi e disincantare verso questo modo di fare ricerca ed informazione scientifica.

La ricerca sulla mappatura del genoma umano ha assorbito più risorse dei programmi spaziali. Speravano di renderci consapevoli di tutte le malattie che avremmo avuto, e di spingerci a curarle in anticipo; senza contare il massiccio ricorso agli ansiolitici ed ai trattamenti psichiatrici che avrebbe comportato la certezza di morire di cancro al tal' organo o al tal' altro entro 10 anni.

Proprio l'interazione con l'ambiente, l'epigenetica e l'estrema complessità dei processi che presiedono allo sviluppo di una malattia ci ha salvato.

Ma la narrazione che girò sul tema fu potente ed evocativa, nessuno includeva in questa narrazione che il DNA non codificante, ovvero il 95% del DNA, veniva definito “Junk DNA”, perchè non sapevano come spiegarlo.

Oggi sappiamo che il DNA non codificante ha un'importante funzione regolativa, dato ceh l'informazione non passa in maniera asimmetrica dal DNA all'RNA ed alle proteine, ma passa anche dalle proteine al DNA, con la funzione di regolare, ovvero silenziare od esprimere pool genetici.

Tutta la bufala della mappatura genetica con la possibilità di prevedere le malattie si basava sullo studio del 5% del DNA. Questo non era incluso nella narrazione dominante.

Con Alessandro Baricco, non mi illudo che esistano fatti separati dalle narrazioni possibili, la realtà è un misto di fatti e narrazioni.

E la mia è una narrazione sulla narrazione dominante, è la voce del bambino, o del pazzo, che urla “il Re è nudo”.

Quando la madre del giovane Guy de Maupassant chiese a Flaubert di insegnare al figlio come si scrive, Flaubert rispose che Guy avrebbe dovuto osservare e descrivere, ad esempio un albero, come se fosse stato il primo uomo sulla Terra a vederlo.

Ed io così voglio vedere la sperimentazione animale, individuando una semplicistica trasposizione ed un salto logico che salterebbe agli occhi di tutti, se esaminassimo il problema per la prima volta e con occhi innocenti.

Insisto nel parlare di ontologia ed epistemologia e non di etica, perchè nella società liquida descritta da Bauman7 sono previste tribù etiche che hanno egual diritto, ma diversa voce in capitolo secondo gli interessi finanziari che riescono ad influenzare.

Quindi con l'etica non se ne viene fuori.

Dobbiamo quindi chiederci se è ontologicamente possibile assimilare animali umani e non umani e se è epistemologicamente appropriato basare la nostra speranza di salute su paradigmi scientifici quanto meno obsoleti e su narrazioni interessate a scovare la pietra filosofale, ovvero trovare il modo di trasformare in oro qualsiasi metallo, perdendo così la complessità dell'esistere.

Per finire, riguardo alla sostanze d'abuso e di quanto sia illusoria o strumentale la riduzione del trattamento ad uno schema organicistico, vorrei citare le parole di Luigi Cancrini8, autorità indiscussa nel campo, scritte nel 1987 ma, purtroppo, ancora valide:
La terapia delle tossicodipendenze è un problema di Psicologia Clinica?
L'assetto dei servizi, la loro gerarchia interna, le indicazioni che vengono dal modo in cui vengono spesi soldi, pubblici e privati, sembrano proporre risposte negative a questo quesito. I giornali sono pieni di notizie relative alla disintossicazione rapida e e ai grandi educatori o a personaggi istrionici che si travestono da grandi educatori.
Nelle facoltà di medicina, il capitolo sulle tossicodipendenze è affrontato, di scorcio, dei programmi di farmacologia. Le famiglie vengono spinte sempre più spesso a organizzare strutture di controllo e la ricerca della droga nelle urine è diventata routine nei laboratori di analisi: si cercavano lì, un tempo, quando le persone erano importanti per il medico di famiglia, le tracce d'albumina, si cercano lì oggi, correntemente, le tracce di tetraidrocannabinolo (nostro figlio ha fumato uno spinello?) o di eroina (sì è fatto? È tossicomane?).
Eppure......
Osservato dal punto di vista di chi conosce il problema, l'insieme delle tendenze elencate qui sopra si propone, in effetti, come il frutto di un malinteso. Di un errore catalogabile sul versante degli imbrogli a parte di chi ci fa soldi (l'industria farmaceutica che produce e vende miliardi di lire di reattivi per l'analisi delle urine e del sangue; medici sprovveduti ma non tanto che continuano a promettere guarigioni basate su interventi di tipo farmacologico); su quello dell'ingenuità da parte di chi i soldi li spende inseguendo fantasie di guarigione o di redenzione; su quello dell'ignoranza (o della mancanza di informazioni utili) dalla parte degli amministratori e dei giornalisti che continuano a negare il problema cruciale del tossicomane e che è appunto un problema di psicologia clinica, e che continuano a saldare il cerchio (a fare da tramite o da mezzani) fa ignoranti furbi e e ignoranti da loro ingannati, fra guaritori e vittime del malinteso.
Un libro come quello che ho il piacere di presentare potrebbe essere importante, mi pare, soprattutto per questo. Portando al centro dell'attenzione la persona (invece delle sostanze) esso consente di fornire informazioni utili in tema di dipendenza e di terapia della dipendenza a tutti quelli che (giornalisti o medici, educatori parenti o teorici) avranno il tempo di leggerlo: consentendo loro di sciogliere (dentro di sé: prima di tutto dentro di sé) il malinteso della cultura in cui ci troviamo immersi su cui si basa, oggi, la complicità sostanziale fra un sistema culturale (antropologicamente: della cultura in cui ci troviamo immersi) e le organizzazioni delinquenziali del narcotraffico.
Organizzazioni cui niente di meglio si potrebbe offrire, per potenziare o mantenere le loro attività, di una prevenzione basata sulla favola di cappuccetto rosso (il bambino che se ne vada solo viene ingannato da lupo che offre droga) e di una terapia basata su quella di Cenerentola (la fata e il principe: un miracolo che viene da fuori liberando la persona da una schiavitù che è esterna a lei).
Duro e paziente, il lavoro dello Psicologo Clinico richiede tutt'altro tipo di impegno o di conoscenza.
Richiede, soprattutto, capacità di cercare e leggere, nel profondo delle persone, la storia del conflitto su cui esse si sono bloccate.
Di riprendere il filo smarrito di un'esistenza sospesa dalla consuetudine della droga.
Come accadeva in un'altra fiaba, quella che si richiamava al sonno senza tempo della bella
addormentata, lavorando per incontrare, dopo averne seguito a lungo le tracce nella selva ricca di rovi e di spini, di buio e di angosce, la persona che ha perso il senso della sua vita. Accompagnandolo fuori dal bosco all'interno di uno sforzo graduale e paziente che è la parte più faticosa della risoluzione (quella da non raccontare ai bambini) e che si chiama comunque, qualunque sia il setting all'interno della quale la si istituisce, psicoterapia. Utilizzando gli strumenti che sono quelli su cui si basano (dovrebbero basarsi) la formazione e la competenza dello Psicologo Clinico.
Di colui che intuisce e poi conosce (avventura che si rinnova ogni volta) i percorsi interni di una scelta e di un blocco, di un bisogno e di una impossibilità nascosta, insieme, dietro una dipendenza da droga.

1Docente a contratto di Modelli Clinici delle Dipendenze presso la Scuola di Specializzazione in Psicologia Clinica della Facoltà di Medicina e Psicologia dell'Università di Roma La Sapienza. Psicoterapeuta ad orientamento psicoanalitico. Studente presso il corso di Laurea in Scienze Filosofiche dell'Università Statale di Macerata. roberto.mucelli@uniroma1.it
2 WITHEHEAD Alfred North, RUSSEL Bertrand, 1950, Principia Mathematica, 2a ed. vol 1 Cambridge University Press, London
3BATESON Gregory, 1972, Steps to an ecology of mind, Chandler Publishing Company; tr. it. Verso un'ecologia della mente, Adelphi, Milano, 1976
4Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, 2013, American Psychiatric Association
5CIMATTI Felice, Filosofia dell'animalità, Laterza, Bari 2013
6BARICCO Alessandro, 2017, Alessandro Magno. Sulla narrazione, Mantova Lectures
7BAUMAN Zygmunt, Modernità liquida, Laterza, Bari, 2006
8 La terapia delle tossicodipendenze è un problema di Psicologia Clinica?
Introduzione di Luigi CANCRINI a Roberto MUCELLI, Guglielmo MASCI (1996): " Tossicodipendenze: curare, guarire, assistere. Lo Psicologo Clinico lavoro " Angeli, Milano.)