venerdì 16 settembre 2022

TENTAZIONE D’ESISTERE E NOSTALGIA: IN MEMORIA DI RENZO CARLI

 Renzo Carli è stato un innovatore della psicologia clinica fornendone una visione non confinata al setting psicoterapeutico e psicodiagnostico. Provenendo già da una formazione tradizionale nell’area della psicoterapia psicoanalitica e della psicoanalisi interpersonale, sono stato suo allievo nella scuola di specializzazione in psicologia clinica della Sapienza, prima scuola di specializzazione universitaria in questa disciplina, prima specializzazione abitata a rilasciare il titolo di psicoterapeuta e, per anni, unica specializzazione dell’area psicologica che permetteva di accedere ai concorsi per il servizio sanitario nazionale. Io sono stato il primo a presentare la tesi e conseguire il titolo di specialista in psicologia clinica, indirizzo psicoterapia individuale e di gruppo.

Molti primati fenomenici. Ma il primato vero è sia di natura operativa che di natura culturale. Non è trascorso nemmeno un anno e mezzo dalla mia seconda specializzazione, quella che mi ha visto allievo di Renzo, che ho deciso di abbandonare il servizio sanitario nazionale. Paradossalmente, pur essendo il titolo di specialista in psicologia clinica l’unico che formalmente permetteva di accedere ai concorsi, nella pratica quotidiana il SSN era un luogo dove quelle competenze specialistiche non avevano alcun modo di essere esercitate. Colsi quindi l’occasione della nascita di mio figlio per abbandonare quella che ormai era una vecchia nave che preferiva le acque sicure del porto o al massimo una navigazione costa-costa con tratti brevi, un legno marcio e odorante di stantio, autoreferenziale e isolata dalla cultura e dal territorio come la stultifera navis  di Foucault.

E così la prima importante ricaduta del percorso di specializzazione ideato e condotto da Renzo fu per me la possibilità di divertirmi tantissimo e mantenere la mia famiglia senza dover passare la mattinata a morire di noia.

Avevo imparato a guardare il setting psicoterapeutico come un incontro tra significanti che davano luogo a infinite e complesse reti di relazioni, uno spazio tempo in cui potevano confluire le interiorizzazioni dinamiche individuo - gruppo - organizzazione - contesto, visti sia del paziente che del terapeuta in maniera intersoggettiva La clinica consisteva nell’osservazione, riflessione, elaborazione, supporto attivo e interpretazione del dispiegarsi di queste dinamiche nel laboratorio costituito dalla interazione psicoterapeutica, sia nel qui ed ora della relazione sia nell’aspetto storico della relazione stessa e della narrazione storica e attuale delle relazioni del paziente.


Attraverso una formazione centrata sul pensare ed elaborare il rapporto tra significanti, attraverso l’ausilio del gruppo di formazione e dell’analisi della domanda formativa e del contesto in cui si dispiegava, ho imparato sulla  mia pelle il metodo clinico. Io e i miei colleghi abbiamo anche studiato molto e appreso di vari apporti, dalle psicoanalisi storiche e contemporanee alle più avanzate teorie provenienti dagli studi sul cognitivismo, dallo studio delle rappresentazioni sociali alle teorie costruttiviste e sistemiche. Ma la parte più interessante ed eccitante della formazione rimaneva il riflettere in gruppo, a partire dall’analisi della nostra domanda di formazione e delle dinamiche del contesto universitario. I colleghi stessi di specializzazione per me sono stati una preziosa fonte di formazione, non solo i docenti. Un’esperienza,unica nel contesto delle mie frequentazioni universitarie, che recuperava il senso della universitas nei suoi momenti aurorali, che nacque nel medioevo costituita dalla corporazione di studenti e docenti, mentre gli studenti stessi delle facoltà delle arti presto diventavano anche docenti tenendo corsi e lezioni ai colleghi. Fu così che appresi un metodo di lavoro, il metodo psicologico clinico, che poteva essere declinato in qualsiasi ambito.


Era il totale superamento della psicologie al genitivo. Tuttavia devo ammettere che le psicologie al genitivo non solo sono sopravvissute, ma ha hanno dimostrato anche un vantaggio evolutivo (in senso stretto: la capacità di generare prole quindi di riprodursi) rispetto alla psicologia clinica che con il suo metodo ha osato “invadere” settori di business bel delimitati e definiti. Se dovessi cercare un perché potrei azzardare l’ipotesi di una maggiore complessità culturale e quindi formativa della psicologia clinica di Renzo Carli, contrapposta alla facilità di trovare risposte brevi e più facile nelle tecniche che sostengono le psicologie al genitivo, che presentano quindi un appeal maggiore per una domanda formativa che vuole (illudersi di) imparare velocemente e a buon mercato, sostenuta dall’ansia di un posizionamento rapido nel mercato del lavoro, che tuttavia quasi mai avviene nei termini immaginati. Le psicologie al genitivo quindi generano una domanda formativa più vasta e ampia, talvolta irriflessiva, generano più “prole” e così mostrano un vantaggio evolutivo, ben inteso autoreferenziale all’interno della categoria degli psicologi, è da discutere se vi sia un concreto vantaggio in termini di risposta ai bisogni della società civile.

Quindi ho fatto il formatore, il supervisore, il direttore di ricerca oltre che lo psicoterapeuta, fondandomi sul metodo psicologico clinico.


Attraverso il metodo psicologico clinico ho poi collaborato per 12 anni con la federazione italiana tre know do, collaborazione culminata nel 2012 con le medaglie d’oro e di bronzo alle Olimpiadi di Londra. Nessuno degli psicologi al genitivo, ovvero in questo caso psicologi dello sport, mi ha chiesto come sia potuto succedere. Per la verità non so nemmeno se si siano posti la domanda.


Il metodo psicologico clinico, in estrema sintesi, prevede:

  • un approccio alla realtà intersoggettiva, forma d’esperienza basata sulla relazione.
  • un’osservazione della relazione e produzione di pensiero su quanto accade in termini di significanti che si interfacciano e si declinano dinamicamente nel continuum individuo-gruppo-organizzazione-contesto.
  • uno studio storico della narrazioni della personalità e dei suoi legami con i contesti di riferimento, familiare, lavorativo, formativo, sociale.
  • la sospensione dell’azione e l’analisi della domanda come prima interfaccia nella quale si declinano i mondi intersoggettivi di paziente e terapeuta o di cliente e consulente.

SI studia il rapporto tra significanti come produzione aurorale dei vari tipi di linguaggio che sono essi stessi simboli e non semplici rappresentazioni. Sappiamo da Lacan come i linguaggi siano espressione di desiderio verso l’altro e di desiderio di desiderare, espressione quindi di un bisogno che si declina in domanda.

Ridurre il significante al proprio significato, secondo il celebre algoritmo di Saussure, significa ipostatizzare e irrigidire, consapevoli con Wittgenstein che il significato di un significante altro non è che il suo uso. E l’uso di un significante è inevitabilmente mediato e fissato nell’intervallo temporale della sua esistenza dalla microcultura linguistica, ci racconta del modo di esser inconscio della mente soltanto sui tempi lunghi e perdendo il dinamismo necessario per la nostra attività ermeneutica.


Potendolo ora osservare da lontano contributo culturale di Renzo si staglia all’orizzonte come il massiccio granitico del Soratte si staglia nella pianura dell’agro romano. La pianura è metafora dell’appiattimento culturale della vecchia Europa sul mondo anglofono. Il Soratte, enorme masso granitico, è la nostra cultura europea, di cui profumano i libri e i dialoghi di Renzo: in quella roccia di granito si può distinguere l’impronta di Lacan, quindi di  Kojéve, nipote di Vassilj Kandinsky, poi Nietzsche, Marx, Hegel, Heidegger, Husserl. 


Tanta roba. Fondazione culturale che evoca quell’era straordinaria di fine ottocento/primi novecento, che evoca la suggestione quasi erotica di Parigi e la serietà e compostezza di Heidelberg, il fascino di una Russia non ancora devastata dal bolscevismo e dallo stalinismo, alla quale ancora si permetteva di fecondare a pieno titolo la cultura europea.

Dal punto di vista più strettamente psicoanalitico in Renzo potevamo sentire l’eco del pensiero rigoroso di Wilfred Bion e Ignacio Matte Blanco, gli unici due psicoanalisti che hanno prodotto degli scritti con il linguaggio proprio di una teoria, gli altri hanno prodotto tutti degli scritti in un linguaggio metainterpretativo o parascientifico.

Renzo Carli basava i suoi scritti su un’epistemologia della complessità, della reticolarità, della probabilità, che è la stessa epistemologia su cui si fonda la fisica quantistica.

Il mondo anglofono che ci ha colonizzato culturalmente e linguisticamente si fonda su un’epistemologia più datata e molto meno sofisticata, ovvero il neopositivismo e il riduzionismo scientifico che hanno le loro radici in Bacone e in Cartesio, ovvero nell’età moderna.


La Psicologia Clinica di matrice anglofona negli anni 70’ del 900 era ancora null’altro che un minestrone di tecniche psicodiagnostiche e psicoterapeutiche, basta consultare il buon vecchio manuale di Korchin per rendersene conto.

Oggi il riduzionismo e lo scientismo imperante, nonché il vantaggio evolutivo delle psicologie al genitivo, rischia di riportare la psicologia clinica ad un nuovo supermercato di tecniche, magari più sofisticate ed evidence based, dove chi si forma può mettere nel carrello di volta in volta la meglio pubblicizzata, la più semplice da apprendere, la più redditizia, quella che maggiormente si presta a mantenere intatto l’assetto delle proprie difese psicologiche.

Molti testi universitari, imposti obbligatoriamente anche dai famigerati ECM, altro non sono che compilation di tesi di laurea, prodotti in fretta sulla spinta a pubblicare data dal meccanismo di valutazione ministeriale dei docenti. Sono nozioni ammantate di evidence based, secondo la nuova religione dello scientismo per la quale attraverso il semplice ricorso al metodo scientifico e al riduzionismo si produce verità assoluta e incontrovertibile, sostituendo bibbia, corano e torah nella promulgazione della Verità. Il pragmatico minestrone di tecniche della psicologia clinica senza testa e senza metodo degli anni ’70 rischia così di essere riciclato e presentato con un maquillage scientifico, come una patetica vecchia che non sa invecchiare e va in giro in minigonna, guance gonfie, labbra a canotto e seno a palloncino.


Sapere che Giovanni “ha” l’attaccamento disorganizzato, Mariangela “ha” l’accudimento distanziante e Jacopo “è” un narcisista cover aiuta lo psicologo clinico ne più e ne meno come Google Maps aiuta a guidare. Ci fornisce la mappa, che, scontatamente, non è il territorio. Soprattutto non ci dice come dobbiamo guidare, non dice come usare il freno a mano per derapare escludendo l’ABS a chi, come me, abita in montagna e sventatamente non guarda il meteo e si può trovare a rincasare la sera sui tornanti innevati. Ma non ci dice nemmeno come possiamo fare un semplice parcheggio. Così i neo-psicologi, aspiranti psicoterapeuti, si rivolgono alle quelle scuole di specializzazione fondate su un’unica tecnica, sulla quale poi si monta una para-teoria, sulla quale poi si fonda una scuola di specializzazione in psicoterapia. La speranza è quella di trovare qualche “dritta” per trovare lavoro anziché elicitare una domanda ancora implicita e potervi rispondere professionalmente; trovare lavoro, semplicemente e rapidamente e non dover mai essere costretti, per brevità, orientamento culturale, ansia da separazione da famiglie eternamente neoteniche, a dover analizzare e ripensare la loro stessa prospettiva professionale.


La scienza è inevitabilmente approssimazione, probabilità, tentativo, gusto della scoperta. Oggi la scienza promana sicurezze e spacciando per scienza ciò che altro non è che tecnica, o meglio ancora tecnologia. Ricordiamo il modo in cui Martin  Heidegger pensa la tecnica, che è soltanto gestell, ovvero supporto, e non può mai essere una rinuncia a pensare. La scienza invece dovrebbe essere la culla del pensiero sugli enti, riservando il pensiero sull'essere alla filosofia, sempre seguendo il pensiero di Heidegger.

Il riduzionismo e la celebrazione della tecnica mascherata da scienza come nuova metafisica, nella psicologia clinica e in generale nella cultura, sono invece un salto indietro di 400 anni, una sorta di ritorno all’experimentum crucis, al tavolo degli imputati di baconiana memoria sul quale veniva posta la Natura per farle confessare i suoi segreti attraverso le tecniche sperimentali.

I libri di Renzo sono visibilmente frutto della fatica del pensare e coinvolgono sempre il lettore al quale viene chiesta una partecipazione attiva, il Lector in fabula di cui scrive Umberto Eco.

Sono onorato di aver fatto fatica con Renzo Carli, sui libri e di persona. Non sono stato un discepolo modello, la fretta di fare e la continua tentazione di esistere, viva in me come una vera e propria ossessione, mi ha portato lontano dalle sue rotte fenomeniche, ma sempre nell’ambito della sua forte impronta culturale e formativa. 


Chi avrebbe detto che sarei, col tempo, diventato un nostalgico?

Renzo, penso di non averti mai ringraziato, andavo troppo di fretta. Perdonami se puoi. Ricordo una delle tue azioni interpretative, come tu le denominavi. Una volta mi ricevetti al Vicolo del Cedro per parlare di un tema di lavoro. Io arrivai tutto impostato, mentre tu stappasti una bottiglia di un ottimo vino bianco, memore delle nostre comuni origini venete.

Nostalgia, colpa e pentimento vanno a braccetto, caro e indimenticabile Renzo, per favore, dammi modo di ringraziarti ora.

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