Il cieco
Il profumo dell'erba tagliata mi solletica le narici, ricordo di vita, di eccitazione all’idea di incontrare amici, ragazze, il paddle . Ora sono qui, seduto su una panchina di legno umido, immerso nel buio più profondo. Non è solo la vista che ho perso per quell’infezione maledetta, ma anche la gioia. La voglia di vivere ha lasciato spazio alla mano adunca della malattia, figlia della morte, della fine di tutto
Invece è la mano di Marco che stringe la mia. E’ piccola, sudata. "Papà, qui c'è una fontana con delle statue," dice con voce monocorde. Le sue parole sembrano prive di vita, come echi in una caverna vuota.
Prima Villa Torlonia era un tripudio di colori e forme: il verde intenso degli alberi, il bianco accecante del marmo, l'azzurro del cielo che si specchiava nell'acqua delle fontane. Ora percepisco solo ombre e contorni indefiniti, un mondo grigio e sfocato.
Vorrei poter vedere il sorriso di Marco, i suoi occhi brillare di fronte alla bellezza di questo luogo. Ma so che anche lui è intrappolato in questa prigione di oscurità, costretto a fare da guida a un padre che si sente un peso..
"Raccontami ancora, Marco," sussurro, aggrappandomi alla sua voce come un naufrago a una zattera. Vorrei che le sue parole potessero dipingere nella mia mente le immagini che io non posso più vedere, ma sento la sua stanchezza, la sua frustrazione.
Anche lui è vittima di questa tragedia, derubato della sua infanzia. Mi sento inutile, in colpa, un mostro che si nutre della sua vitalità.
Il sole tramonta, e un brivido di freddo mi percorre la schiena. Vorrei poter abbracciare Marco, dirgli che gli voglio bene, che apprezzo il suo sforzo. Ma le parole mi muoiono in gola, soffocate dal senso di inadeguatezza e dalla disperazione.
"È stata una bella giornata, vero Marco?" chiedo, con un filo di voce.
"Sì, papà," risponde lui, e nel suo tono sento tutta la bugia, tutta la tristezza.
Torniamo a casa in silenzio, due ombre che si aggirano nella notte. So che questo buio non finirà mai, e che Marco sarà condannato a condividerlo con me.
La mamma morta
La pioggia batteva incessante sui vetri della chiesa, sottofondo al dolore che riempiva l'aria. Dentro, le lacrime profumavano d’incenso. La bara al centro della navata sembrava assorbire tutta la luce.
Anna, la maggiore, fissava il volto pallido della madre, cercando invano un segno di vita, un ultimo sorriso. Guardava le mani che l'avevano accarezzata da bambina; oramai inerti, assumevano un aspetto diafano, spettrale, nella loro immobilità e nella colorazione esangue. I suoi occhi, un tempo pieni di ansia, di amore e di rabbia, chiusi per sempre. Accanto a lei, Marco, il fratello minore, singhiozzava senza ritegno. A soli dieci anni, non riusciva a comprendere la brutalità della morte, il suo potere di strappare via le persone care senza preavviso. Si aggrappava al braccio di Anna, cercando conforto in quel contatto familiare, in quell'unica certezza che gli rimaneva.
Il prete iniziò la sua omelia, parole di circostanza sulla fragilità della vita e sulla speranza nella vita eterna. Ma Anna non lo ascoltava. Nella sua mente frammenti di ricordi penetravano la sua carne come lame affilate.
Paralisi
Il sudore gli imperlava la fronte, non per il caldo della sala conferenze, ma per un'inquietudine crescente che gli serrava lo stomaco. Il Professor Deviti stava illustrando gli ultimi progressi nella ricerca sull'Alzheimer quando un'ombra avvolse la sua mente. Si presentò un leggero formicolio alla guancia sinistra, quasi impercettibile. Poi, la lingua sembrò indurirsi, ostacolando la pronuncia di alcune parole.
"Come... come dicevamo," balbettò, cercando di mantenere la calma, "la... la proteina beta-amiloide..." Ma la frase gli morì in gola. La paralisi, subdola e implacabile, stava risalendo lungo il suo volto, bloccando i muscoli facciali uno ad uno.
Un brivido di terrore percorse la schiena. Lui, che aveva dedicato la vita a studiare le malattie del cervello, si ritrovava ora in trappola in un incubo ad occhi aperti. La platea, inizialmente imbarazzata dai suoi inciampi, ora lo fissava con un misto di preoccupazione e terrore.
Le labbra rimasero immobili, contratte in una smorfia grottesca. La sua mente, lucida e consapevole, era prigioniera di un corpo che si stava spegnendo.
La paura si trasformò in angoscia, un'onda gelida che lo travolse. Si sentiva soffocare, annegare in un mare di silenzio e immobilità. Il suo sguardo, l'unica parte del corpo ancora libera, vagava disperato tra la folla, cercando un aiuto, una parola di conforto.
AIDS
Il respiro affannoso rimbalzava sulle pareti spoglie della stanza d'ospedale, un suono rauco che scandiva il tempo, un tempo che si stava esaurendo. Marco fissava il soffitto, gli occhi spenti, il corpo consumato dalla malattia. L'AIDS lo aveva aggredito lentamente, insidiosamente, privandolo delle forze, della giovinezza, della speranza.
Involucro fragile, ossa che sporgevano sotto la pelle sottile, lividi che fiorivano al minimo tocco. La tosse secca lo scuoteva a intervalli regolari, strappandogli gemiti di dolore.
Ma il dolore fisico era nulla in confronto all'angoscia che negava la vita all'anima. La paura della morte, una presenza costante che gli oscurava i pensieri, si mescolava al rimpianto per una vita non vissuta, mentre la solitudine era un macigno che gli opprimeva il petto.
L'angoscia si trasformò in rabbia, una rabbia impotente contro il destino, contro la malattia, contro se stesso. Perché proprio a lui?
Un grido strozzato gli uscì dalla gola, un urlo di dolore e di ribellione che si perse nel silenzio della stanza. Poi, la stanchezza ebbe il sopravvento. Marco si abbandonò al torpore in un'esplosione di colori che svanì lentamente nel buio.
L’assassina
Il silenzio in aula era opprimente. L'aria era densa di un'attesa carica di orrore e incredulità. Al centro del banco degli imputati, una figura minuta, avvolta in un cappotto grigio, il volto nascosto tra i capelli scuri. Era lei, Teresa, la madre accusata di aver ucciso i suoi due figli.
Il giudice, con voce grave, lesse l'atto di accusa, elencando i dettagli macabri del delitto con un tono di grigia burocrazia. Teresa ascoltava immobile, lo sguardo fisso nel vuoto, come se quelle parole non la riguardassero, come se fosse spettatrice di un film dell'orrore.
Un flash. Una cucina in disordine, giocattoli sparsi sul pavimento, il profumo del latte caldo. Due bambini, occhi grandi e innocenti, che giocano ai piedi della madre. Un attimo di normalità, di vita quotidiana. Poi l'ombra, un'oscurità che la avvolge, soffocandola. Un gesto improvviso, un urlo, il pianto disperato dei bambini. Il silenzio.
Il pubblico ministero si alzò, la voce teatrale vibrante di indignazione.
L'avvocato difensore cercò di scavare nell'animo tormentato di Anna Maria, di far emergere il dolore, la disperazione che l'avevano spinta a compiere quel gesto estremo. Parlò di una donna fragile, schiacciata dalla solitudine, dal peso di una vita difficile, della depressione psicotica che sin da bambina le mordeva l’anima.
Lei non reagiva, non mostrava emozioni, chiusa in un mondo inaccessibile, un luogo oscuro dove nessuno poteva raggiungerla.
Cosa hanno in comune queste storie?
Il fatto che non sono vere.
Nemmeno verosimili.
Nemmeno lontanamente probabili, almeno per le persone che le hanno concepite.
Sono narrazioni fantastiche, buchi neri che con la loro forza gravitazionale attirano tutte le paure, quelle minute, quotidiane e le includono in sé. Attirano e poi rappresentano un senso di inadeguatezza totale, anche di fronte agli eventi più banali.
La mente è una buona economa, risparmia energie, riunisce tutte le paure in un unico tema, circoscritto ma forte, in modo da lasciar vivere la persona e permetterle di performare una vita normale, permetterle di funzionare bene nel resto dell'esistenza.
Perchè il buco nero è una paura che la mente crede di poter controllare, esorcizzare.
Il grande autoinganno del nostro piccolo Io razionale. Cosa vuoi che sia controllare una sola paura di fronte a mille e più.
Perchè il nostro Io dispone della ratio, ovvero del calcolo. 1 sola paura, circoscritta, contro 1000, presenti ad ogni angolo della propria vita.
Facile.
Peccato che quell’unica paura diventa enorme, martellante, ossessiva, onnipresente e finisce col pesare di più di tutte le altre paure messe insieme. Assumere su di sé tutte le paure significherebbe affrontare il senso di inadeguatezza, ovvero un difetto fondamentale della persona, mentre invece l'unica grande paura può essere considerata come qualcosa di esterno, non appartenente a un difetto del sé. La persona sarebbe intatta una volta controllata ed esorcizzata quell'unica grande paure.
Progressivamente l’evento ossessivamente temuto, estremamente improbabile, diviene una certezza in virtù della non totale impossibilità, almeno teorica, solo perché non è ammissibile che il piccolo Io razionale non abbia la possibilità di controllo totale e onnipotente della realtà. L’efficacia di tutti i meccanismi di controllo della grande paura viene messa in dubbio e quindi rinforzata e rinforzata ancora, attraverso mille stratagemmi che finiscono per invadere pervasivamente l’anima e l'esistenza tutta. Perché, se non lo posso controllare,succederà sicuramente. Dopo una vita spesa a tentare in tutti i modi, plausibili o improbabili, di controllare il pensiero intrusivo che ossessivamente si ripresenta, le persone si rivolgono allo psicoterapeuta, chiedendogli di togliere o controllare l'ossessione che attanaglia la gola appena sveglio, durante il giorno, e prima di andare a dormire. Tolta o controllata con stratagemmi e trucchi vari quella singola paura tutto funzionerà, secondo quanto si aspetta il paziente, si tratta solo di sostituire una scheda difettosa e la macchina andrà a gonfie vele. Purtroppo molti orientamenti psicoterapeutici colludono con questa fantasia di poter controllare l'ossessione senza poi dover transitare per il senso di inadeguatezza generale e di decostruzione del sé che la motiva.
La sospensione del tempo, il lavoro analitico condotto da paziente e analista permettono il riaffiorare delle mille e ancor mille paure, del senso di inadeguatezza personale e delle sue radici. La persona si sente più fragile, perfino malata ma, contenuta e protetta dalla relazione con l’analista. Spesso, nell’ambito del continuum espressivo-supportivo della terapia psicoanalitica, si possono utilizzare tecniche supportive, cognitive per aiutare il paziente a fronteggiare la forza delle sue ossessioni, fino a che, in alti e bassi, si possa mettere in grado di utilizzare la scoperta della sua fragilità, temuta ma benefica, per partire verso il lungo viaggio della ricostruzione del sé.