venerdì 25 ottobre 2024

Ossessioni


 


​​Il cieco

Il profumo dell'erba tagliata mi solletica le narici,  ricordo di vita, di eccitazione all’idea di incontrare amici, ragazze, il paddle . Ora sono qui, seduto su una panchina di legno umido, immerso nel buio più profondo. Non è solo la vista che ho perso per quell’infezione maledetta, ma anche la gioia. La voglia di vivere ha lasciato spazio alla mano adunca della malattia, figlia della morte, della fine di tutto

Invece è la mano di Marco che stringe la mia. E’  piccola, sudata. "Papà, qui c'è una fontana con delle statue," dice con voce monocorde. Le sue parole sembrano prive di vita, come echi in una caverna vuota.

Prima Villa Torlonia era un tripudio di colori e forme: il verde intenso degli alberi, il bianco accecante del marmo, l'azzurro del cielo che si specchiava nell'acqua delle fontane. Ora percepisco solo ombre e contorni indefiniti, un mondo grigio e sfocato.

Vorrei poter vedere il sorriso di Marco, i suoi occhi brillare di fronte alla bellezza di questo luogo. Ma so che anche lui è intrappolato in questa prigione di oscurità, costretto a fare da guida a un padre che si sente un peso..

"Raccontami ancora, Marco," sussurro, aggrappandomi alla sua voce come un naufrago a una zattera. Vorrei che le sue parole potessero dipingere nella mia mente le immagini che io non posso più vedere, ma sento la sua stanchezza, la sua frustrazione.

Anche lui è vittima di questa tragedia, derubato della sua infanzia. Mi sento inutile, in colpa, un mostro che si nutre della sua vitalità.

Il sole tramonta, e un brivido di freddo mi percorre la schiena. Vorrei poter abbracciare Marco, dirgli che gli voglio bene, che apprezzo il suo sforzo. Ma le parole mi muoiono in gola, soffocate dal senso di inadeguatezza e dalla disperazione.

"È stata una bella giornata, vero Marco?" chiedo, con un filo di voce.

"Sì, papà," risponde lui, e nel suo tono sento tutta la bugia, tutta la tristezza.

Torniamo a casa in silenzio, due ombre che si aggirano nella notte. So che questo buio non finirà mai, e che Marco sarà condannato a condividerlo con me.



La mamma morta

La pioggia batteva incessante sui vetri della chiesa,  sottofondo al dolore che riempiva l'aria. Dentro, le lacrime profumavano d’incenso. La bara al centro della navata sembrava assorbire tutta la luce.

Anna, la maggiore, fissava il volto pallido della madre, cercando invano un segno di vita, un ultimo sorriso. Guardava le  mani che l'avevano accarezzata da bambina; oramai inerti, assumevano un aspetto diafano, spettrale, nella loro immobilità e nella colorazione esangue. I suoi occhi, un tempo pieni di ansia, di amore e di rabbia, chiusi per sempre. Accanto a lei, Marco, il fratello minore, singhiozzava senza ritegno. A soli dieci anni, non riusciva a comprendere la brutalità della morte, il suo potere di strappare via le persone care senza preavviso. Si aggrappava al braccio di Anna, cercando conforto in quel contatto familiare, in quell'unica certezza che gli rimaneva.

Il prete iniziò la sua omelia, parole di circostanza sulla fragilità della vita e sulla speranza nella vita eterna. Ma Anna non lo ascoltava. Nella sua mente frammenti di ricordi penetravano la sua carne come lame affilate. 



Paralisi

Il sudore gli imperlava la fronte, non per il caldo della sala conferenze, ma per un'inquietudine crescente che gli serrava lo stomaco. Il Professor Deviti stava illustrando gli ultimi progressi nella ricerca sull'Alzheimer quando un'ombra avvolse la sua mente. Si presentò un leggero formicolio alla guancia sinistra, quasi impercettibile. Poi, la lingua sembrò indurirsi, ostacolando la pronuncia di alcune parole.

"Come... come dicevamo," balbettò, cercando di mantenere la calma, "la... la proteina beta-amiloide..." Ma la frase gli morì in gola. La paralisi, subdola e implacabile, stava risalendo lungo il suo volto, bloccando i muscoli facciali uno ad uno.

Un brivido di terrore percorse la schiena. Lui, che aveva dedicato la vita a studiare le malattie del cervello, si ritrovava ora in trappola in un incubo ad occhi aperti. La platea, inizialmente imbarazzata dai suoi inciampi, ora lo fissava con un misto di preoccupazione e terrore.

Le labbra rimasero immobili, contratte in una smorfia grottesca. La sua mente, lucida e consapevole, era prigioniera di un corpo che si stava spegnendo.

La paura si trasformò in angoscia, un'onda gelida che lo travolse. Si sentiva soffocare, annegare in un mare di silenzio e immobilità. Il suo sguardo, l'unica parte del corpo ancora libera, vagava disperato tra la folla, cercando un aiuto, una parola di conforto.



AIDS

Il respiro affannoso rimbalzava sulle pareti spoglie della stanza d'ospedale, un suono rauco che scandiva il tempo, un tempo che si stava esaurendo. Marco fissava il soffitto, gli occhi spenti, il corpo consumato dalla malattia. L'AIDS lo aveva aggredito lentamente, insidiosamente, privandolo delle forze, della giovinezza, della speranza.

Involucro fragile, ossa che sporgevano sotto la pelle sottile, lividi che fiorivano al minimo tocco. La tosse secca lo scuoteva a intervalli regolari, strappandogli gemiti di dolore.

Ma il dolore fisico era nulla in confronto all'angoscia che negava la vita all'anima. La paura della morte, una presenza costante che gli oscurava i pensieri, si mescolava al rimpianto per una vita non vissuta, mentre la solitudine era un macigno che gli opprimeva il petto.

L'angoscia si trasformò in rabbia, una rabbia impotente contro il destino, contro la malattia, contro se stesso.  Perché proprio a lui?

Un grido strozzato gli uscì dalla gola, un urlo di dolore e di ribellione che si perse nel silenzio della stanza. Poi, la stanchezza ebbe il sopravvento. Marco si abbandonò al torpore in un'esplosione di colori che svanì lentamente nel buio.



L’assassina

Il silenzio in aula era opprimente. L'aria era densa di un'attesa carica di orrore e incredulità. Al centro del banco degli imputati, una figura minuta, avvolta in un cappotto grigio, il volto nascosto tra i capelli scuri. Era lei, Teresa, la madre accusata di aver ucciso i suoi due figli.

Il giudice, con voce grave, lesse l'atto di accusa, elencando i dettagli macabri del delitto con un tono di grigia burocrazia. Teresa ascoltava immobile, lo sguardo fisso nel vuoto, come se quelle parole non la riguardassero, come se fosse spettatrice di un film dell'orrore.

Un flash. Una cucina in disordine, giocattoli sparsi sul pavimento, il profumo del latte caldo. Due bambini, occhi grandi e innocenti, che giocano ai piedi della madre. Un attimo di normalità, di vita quotidiana. Poi l'ombra, un'oscurità che la avvolge, soffocandola. Un gesto improvviso, un urlo, il pianto disperato dei bambini. Il silenzio.

Il pubblico ministero si alzò, la voce teatrale vibrante di indignazione. 

L'avvocato difensore cercò di scavare nell'animo tormentato di Anna Maria, di far emergere il dolore, la disperazione che l'avevano spinta a compiere quel gesto estremo. Parlò di una donna fragile, schiacciata dalla solitudine, dal peso di una vita difficile, della depressione psicotica  che  sin da bambina le mordeva l’anima.

Lei non reagiva, non mostrava emozioni, chiusa in un mondo inaccessibile, un luogo oscuro dove nessuno poteva raggiungerla.




Cosa hanno in comune queste storie? 


Il fatto che non sono vere.

Nemmeno verosimili.

Nemmeno lontanamente probabili, almeno per le persone che le hanno concepite. 

Sono narrazioni fantastiche,  buchi neri che con la loro forza gravitazionale attirano tutte le paure, quelle minute, quotidiane e le includono in sé. Attirano e poi rappresentano un senso di inadeguatezza totale, anche di fronte agli eventi più banali. 

La mente è una buona economa, risparmia energie, riunisce tutte le paure in un unico tema, circoscritto ma forte, in modo da lasciar vivere la persona e permetterle di performare una vita normale, permetterle di funzionare bene nel resto dell'esistenza. 

Perchè il buco nero è una paura che la mente crede di poter controllare, esorcizzare. 

Il grande autoinganno del nostro piccolo Io razionale. Cosa vuoi che sia controllare una sola paura di fronte a mille e più.

Perchè il nostro Io dispone della ratio, ovvero del calcolo. 1 sola paura, circoscritta, contro 1000, presenti ad ogni angolo della propria vita. 

Facile. 

Peccato che quell’unica paura diventa enorme, martellante, ossessiva, onnipresente e finisce col pesare di più di tutte le altre paure messe insieme. Assumere su di sé tutte le paure significherebbe affrontare il senso di inadeguatezza, ovvero un difetto fondamentale della persona, mentre invece l'unica grande paura può essere considerata come qualcosa di esterno, non appartenente a un difetto del sé. La persona sarebbe intatta una volta controllata ed esorcizzata quell'unica grande paure.

Progressivamente l’evento ossessivamente temuto, estremamente improbabile, diviene una certezza in virtù della non totale impossibilità, almeno teorica, solo perché non è ammissibile che il piccolo Io razionale non abbia la possibilità di controllo totale e onnipotente della realtà. L’efficacia di tutti i meccanismi di controllo della grande paura viene messa in dubbio e quindi rinforzata e rinforzata ancora, attraverso mille stratagemmi che finiscono per invadere pervasivamente l’anima e l'esistenza tutta. Perché, se non lo posso controllare,succederà sicuramente. Dopo una vita spesa a tentare in tutti i modi, plausibili o improbabili, di controllare il pensiero intrusivo che ossessivamente si ripresenta, le persone si rivolgono allo psicoterapeuta, chiedendogli di togliere o controllare  l'ossessione che attanaglia la gola appena sveglio, durante il giorno, e prima di andare a dormire. Tolta o controllata con stratagemmi e trucchi vari quella singola paura tutto funzionerà, secondo quanto si aspetta il paziente, si tratta solo di sostituire una scheda difettosa e la macchina andrà a gonfie vele. Purtroppo molti orientamenti psicoterapeutici colludono con questa fantasia di poter controllare l'ossessione senza poi dover transitare per il senso di inadeguatezza generale e di decostruzione del sé che la motiva.

La sospensione del tempo, il lavoro analitico condotto da paziente e analista permettono il riaffiorare delle mille e ancor mille paure, del senso di inadeguatezza personale e delle sue radici. La persona si sente più fragile, perfino malata ma, contenuta e protetta dalla relazione con l’analista. Spesso, nell’ambito del continuum espressivo-supportivo della terapia psicoanalitica, si possono utilizzare tecniche supportive, cognitive per aiutare il paziente a fronteggiare la forza delle sue ossessioni, fino a che, in alti e bassi, si possa mettere in grado  di utilizzare la scoperta della sua fragilità, temuta ma benefica, per partire verso il lungo viaggio della ricostruzione del sé.


giovedì 3 ottobre 2024

La seduta psicoanalitica e il tempo lungo: lo svelamento dell'Essere.




In "Concetti fondamentali della metafisica", Martin Heidegger si interroga sull'essenza dell'essere umano e sulla sua relazione con il mondo, esplorando temi come la finitezza, la temporalità e la solitudine. In questo contesto, la noia emerge come un'esperienza fondamentale che rivela la struttura ontologica dell'esistenza e la sua apertura all'Essere. 

Vediamo in che senso.

Heidegger distingue tre forme di noia:

"Annoiarsi da qualcosa": Questa è la forma più comune di noia, in cui ci si annoia a causa di una specifica situazione o attività che non ci interessa o ci stanca

"Annoiarsi di qualcosa": In questo caso, la noia è più profonda e non è legata a un oggetto specifico, ma a una generale mancanza di interesse o di senso.

"Uno si annoia": Questa è la forma più profonda di noia, in cui l'essere umano si trova di fronte al nulla e alla propria finitezza.

È quest'ultima forma di noia, quella esistenziale, che interessa particolarmente Heidegger. In essa, l'essere umano si trova sospeso, privo di scopi e di interessi, gettato nella vacuità del tempo. Nelle forme depressive questo sentimento di noia si stabilizza e organizza l’esperienza di sé intorno al vuoto, alla nullità, alla inutilità della Vita. Questo tipo di noia prende il futuro e lo riduce in foglie morte portate via dal vento in una direzione che noi non possiamo controllare. Coi i pazienti depressi, in fondo rinunciatari perché fragili, spaventati, occorre anzitutto recuperare un punto di partenza, ovvero la  valenza rivelatrice della noia.

La persona depressa chiude ogni forma di prospettiva per non rimanere sospesa, e questa come insegna Binswanger è letteralmente una sensazione fisica, nell’horror vacui che con una mano adunca stringe la gola, mentre con l’altra, forte come un maglio, comprime il petto fino a togliere il respiro. Un altro tipo di reazione alla noia, apparentemente opposta, è quello dell’attivismo forzato che conduce la persona a una vita maniacale o ipomaniacale, fatta di un “tutto pieno” dove il tempo è soffocato in maniera bulimica. Altre reazioni difensive verso l’horror vacui sono tutte le forme di dipendenza patologica e le derive borderline nella loro alternanza di costruzione/distruzione, idealizzazione/svalutazione e rabbia nelle relazioni, nonché le varie forme fobico-ossessive che tendono a organizzare e ipercontrollare pensieri e realtà.

 Lo scopo del lavoro psicoanalitico è di permettere al paziente di sperimentare e tollerare la sospensione legata allo sperimentare la noia profonda, nella quale l'essere umano si distacca dal mondo degli oggetti e delle occupazioni quotidiane, e si apre alla possibilità di un'esperienza autentica dell'Essere.

La noia, secondo Heidegger, ci "getta" di fronte all'essere nel suo complesso, mostrandoci la sua indifferenza e la sua estraneità. Le cose perdono il loro significato abituale, il tempo si dilata e l'essere umano si confronta con la propria finitezza e con la possibilità della morte. In questo stato di sospensione, l'Essere si manifesta come il fondamento silenzioso e inafferrabile di ogni ente.

Heidegger quindi mette in luce come la noia, lungi dall'essere un semplice stato di apatia, sia un'esperienza che ci mette in contatto con la nostra più profonda natura di esseri-nel-mondo. Nella noia, ci troviamo di fronte alla nostra finitezza e alla nostra libertà, e siamo chiamati a dare un senso alla nostra esistenza.

E’ questo un processo accompagnato da infinite resistenze e grandi angosce che possono essere contenuti e messi a frutto solo se si è formata un'ottima alleanza terapeutica. Dedicheremo alla Alleanza terapeutica uno scritto a parte.

La noia in "Concetti fondamentali della metafisica" di Heidegger non è un semplice stato d'animo, ma un'esperienza fondamentale che ci rivela la nostra essenza e ci apre alla possibilità di un rapporto autentico con l'Essere. È attraverso la noia che possiamo comprendere la nostra finitezza, la nostra libertà e la nostra chiamata a dare un senso al nostro essere-nel-mondo, una “noia profonda che si trascini qua e là negli abissi dell’esserci come una nebbia silenziosa” (§19, 119)

C’è da precisare che Il termine tedesco che Heidegger usa per "noia" in "Concetti fondamentali della metafisica" è "langeweile".

Questa parola è composta da: "lang": lungo, "weile": tempo, mentre

Letteralmente, Langeweile significa "lungo tempo" o "lungo mentre", e richiama l’esperienza della nostalgia (§20,120). Il sentimento della nostalgia può dispiegare le sue vele e navigare nell'esser-ci solo se dispone delle onde lunghe e irregolari del tempo.

La Langeweile profonda, quella esistenziale, è per Heidegger  un'esperienza rivelatrice che ci mette di fronte all'Essere e alla nostra finitezza, portandoci “alla comprensione di come il tempo risuoni nel fondo dell’esser-ci” (§20, 120)

Prendiamo delicatamente per mano il paziente e ci solleviamo in volo attraversando quel tempo sospeso che permette di percepire il Sé nelle onde  quantiche del flusso della coscienza. Il paziente scoprirà che non è un cadere, come lui/lei teme, ma un volare. 

Non ci si può accorgere di volare quando ancora si teme di cadere.

Attraverso la  Langeweile profonda possiamo ottenere:

Sospensione dell'ordinario: La noia profonda, come la descrive Heidegger, implica una sospensione del tempo ordinario, quello scandito dalle occupazioni quotidiane e dalle preoccupazioni mondane. Il tempo sembra dilatarsi, perdere il suo ritmo abituale, e l'essere umano si trova in uno stato di "sospensione" in cui può guardare al di là del quotidiano.

Apertura all'Essere: In questo tempo sospeso, l'essere umano non è più assorbito dalle cose del mondo, ma si apre alla possibilità di un'esperienza più autentica dell'Essere. L'Essere si manifesta proprio in questa sospensione, in questo vuoto temporale in cui l'essere umano si confronta con la propria finitezza e con l'indifferenza del mondo.

Possibilità di un nuovo inizio: Il tempo sospeso della noia può essere anche un momento di riflessione e di riorientamento esistenziale. L'essere umano sospende la reazione attiva verso le preoccupazioni quotidiane, vedendole scorrere di fronte al proprio io osservante come una narrazione in dialoghi e immagini e, attraverso la self reflective function (Fonagy, P., & Target, M. (2001). Attaccamento e funzione riflessiva. Raffaello Cortina Editore.), può interrogarsi sul senso della propria esistenza e aprirsi a nuove possibilità.

La Langeweile heideggeriana non è un passaggio semplice ma un'esperienza emotiva che implica un senso di vuoto, di mancanza e di inquietudine. E’ necessaria molta delicatezza, fermezza e attenzione paziente perchè la persona possa tollerare questo stato, che possiede peraltro aspetti “contagiosi” dato che l’analista nel suo controtransfert non può non vivere contestualmente al paziente profondi sentimenti che sono scaturigine dell’inquietudine della sua stessa finitezza e solitudine esistenziale. Quindi è la coppia analitica al lavoro che coraggiosamente si immerge nella Langeweile, per poi riemergere consapevoli e rinforzati, mettendosi in grado di sperimentare la Langeweile nella sua forma più autentica e di confrontarsi con il senso di vuoto che essa porta con sé.

In un mondo "pieno frenetico", in cui il tempo è costantemente riempito di azioni e distrazioni, l'essere umano è sempre proiettato verso l'esterno, immerso nelle cose del mondo e nelle sue preoccupazioni. In questa condizione, è difficile, se non impossibile, sperimentare la noia profonda e confrontarsi con il senso di vuoto che essa rivela. 

Ma lasciamo che ci parli direttamente Martin Heidegger: “Non ci interessano né l'oggetto né il risultato dell’occupazione. bensì l’essere occupati in quanto tale e soltanto questo. Cerchiamo un essere-occupati qualunque. Perché? Unicamente per non cadere nell’essere lasciati vuoti che emerge con la noia. Dunque, è a questo che vogliamo sfuggire, e non all’esesr-tenuti-in-sospeso? Dunque è l’esser lasciati vuoti l’elemento essenziale del langeweile (tempo lungo)?.... esser lasciati vuoti o essere colmati si riferiscono al commercio con le cose” (§23,152). Il consumismo, le mille attività, l’onnipotenza medico/finanziaria che vorrebbe guarire ogni più piccolo disturbo con la tecnica farmaceutica, il consumo compulsivo di relazioni sociali, lavoro, sesso, droghe, cibo, azzardo, social media e cartoni animati sono usati per colmare l’esser-lasciati-vuoti. Il sentimento di noia, disperazione, angoscia ha radici nell’esser-lasciati-vuoti originario, prototipo sia del senso di abbandono sia dai deficitari percorsi di riconoscimento del vero sé da parte dei caregivers.

Solo nella sospensione del tempo frenetico, quando l'essere umano si distacca dal flusso incessante delle attività e si trova di fronte a sé stesso, può emergere la Langeweile come esperienza rivelatrice. In questo "tempo sospeso", il vuoto non è più evitato o riempito, ma accolto come un momento di apertura all'Essere e di riflessione sulla propria esistenza.

Heidegger in maniera profetica sottolinea come la società moderna, con il suo ritmo frenetico e la sua costante ricerca di distrazioni, tenda a soffocare la noia e a impedire all'essere umano di confrontarsi con la propria finitezza e con le domande fondamentali sull'esistenza.

La  Langeweile, quindi, non è solo un'esperienza individuale, ma anche un fenomeno sociale e culturale. La capacità di sperimentare la noia e di accoglierne il senso di vuoto è un segno di autenticità e di libertà, in quanto permette all'essere umano di sottrarsi alla dittatura del tempo frenetico e di aprirsi a una dimensione più profonda dell'esistenza.

La seduta psicoanalitica può essere considerata una forma di "sospensione del tempo" in senso heideggeriano, sebbene con alcune specificità.

Ecco alcuni punti di contatto e confronto tra la seduta psicoanalitica e il concetto di "tempo lungo" in Heidegger:

Distacco dal quotidiano: Come la Langeweile  profonda, la seduta analitica implica un distacco dal tempo ordinario e dal reagire freneticamente alle preoccupazioni del mondo esterno. Il paziente si stacca per il tempo della seduta dalla quotidianità e si immerge nel mondo della propria interiorità, sui propri pensieri e sulle proprie emozioni.

Sospensione del giudizio: La seduta analitica crea uno spazio protetto in cui il tempo sembra sospeso anche perché il giudizio è sospeso. Il paziente è libero di associare liberamente, senza censure e senza la pressione di dover agire o produrre risultati. La libera associazione, che secondo Freud era il metodo essenziale della psicoanalisi, è in realtà un punto di arrivo del lavoro psicoanalitico, considerato che il paziente inevitabilmente riporta in seduta il modo frenetico di pensare e di agire che riempie le nostre vite tecniche, frettolose, competitive, alla ricerca costante di performance e risultati.

Apertura all'inconscio: Questo "tempo sospeso" favorisce l'emergere di contenuti inconsci, che normalmente rimangono nascosti nel flusso frenetico della vita quotidiana. L'analista, attraverso l'ascolto e l'interpretazione, aiuta il paziente a dare senso a questi contenuti e a integrarli nella propria esperienza cosciente.

Rielaborazione del passato: La seduta analitica può essere vista come un momento di "sospensione" del tempo anche perché permette di rielaborare il passato, di rivivere esperienze traumatiche e di dare loro un nuovo significato. In questo senso, il tempo passato viene "sospeso" e riattualizzato nel presente della seduta, per essere elaborato e integrato nella storia del paziente.

Presenza dell'analista: La seduta analitica si svolge in presenza di un'altra persona, l'analista. La relazione con l'analista è un elemento fondamentale del processo analitico, che influenza l'esperienza del tempo e la possibilità di accedere ai contenuti inconsci.

Obiettivo terapeutico: Mentre la Langeweile in Heidegger è un'esperienza rivelatrice che apre all'Essere, la seduta analitica nel nostro mondo efficientista ha  un obiettivo terapeutico specifico: aiutare il paziente a superare le proprie sofferenze psichiche e a raggiungere un maggiore benessere. Peccato che la psicoterapia non può essere terapeutica nel senso della cura di sé ma solo riparativa se non apre all’essere.

Nelle sedute online il setting psicoanalitico, ancora di più che nello studio, dove possiamo contare su una quinta teatrale preformata, diventa istituente, ovvero frutto del continuo lavoro della coppia analitica nel creare uno spazio adeguato ove possa avvenire la sospensione del tempo. Il paziente non trova una tenero grembo in cui accomodarsi, ma deve crearlo attivamente: auto che raggiungono un parcheggio e si fermano, passeggiate nella propria città, un angolino sottratto al lavoro, il salotto di casa dove la televisione è spenta e non può circolare nessuno oltre al paziente che così sospende il tempo ordinario per fare la seduta. L’analista stesso non siedo comodo a studio nel suo setting preorganizzato ma a un certo punto deve lasciare il caffè sul fuoco, i pagamenti online in sospeso,, i cani e i familiari al loro destino. Come due innamorati che cercano di ritagliare uno spazio speciale per la coppia, paziente e analista si prodigano nel cercare le condizioni migliori per poter allungare il tempo e mettersi in condizione di sperimentare creativamente l’esser-lasciato-vuoto.

Non è molto di moda usare lo spazio psicoterapeutico per fare i conti creativamente con l’angoscia della finitudine, il mainstream a trazione anglosassone propone psicoterapie ortopediche, volte a “riparare” gli schemi cognitivi e comportamentali. La psicoterapia è da tempo sradicata dal contesto culturale dove è nata, mitteleuropa, Ungheria, Italia del Nord, esportata nel mondo anglofono e reimportata materialista e tecnicista, inserita in un ciclo di produzione/consumo nel quale i viventi vanno riparati al più presto per tornare a essere colmati e così perseverare a non pensare.

La seduta psicoanalitica costituisce uno spazio speciale, uno spazio di gioco creativo, direbbe donald Winnicott, dove il tempo è sospeso per lasciar spazio al pensiero, alla considerazione delle proprie angosce più profonde che si possono così liberare e fondersi con l’aria, lasciando la persona più libera, consapevole creativa. Attraverso il pensiero psicoanalitico e filosofico la “cura”, nel senso di prendersi cura,  darsi preoccupazione di… attribuire peso a…  comprende sia la terapia che la crescita personale, i cui confini sono rarefatti come la nebbia in questa dolce mattina di Ottobre, che sa di tempo lungo, di famiglia, di riposo per la natura che profuma di buono dopo la sferzata estiva, sa di bosco, sa di funghi e focolare.





sabato 28 settembre 2024

 

L'operaio e il ribelle di Jünger: dal consumo globalizzato e dalla sorveglianza di massa al bosco

Ernst Jünger, con il suo saggio "L'operaio" (Der Arbeiter) pubblicato nel 1932, offre una delle analisi più controverse e stimolanti del XX secolo sul ruolo dell'uomo nella società industriale moderna. Affascinato e allo stesso tempo inquietato dalla tecnica e dalle grandi macchine di inizio secolo, Junger mostra  un pessimismo lucido e  una visione futuristica mentre descrive l'emergere di una nuova figura umana: l'operaio, un individuo plasmato dalla tecnologia e dalla produzione di massa, destinato a dominare il futuro.

Jünger  l'operaio non è un semplice proletario industriale, ma  una figura metafisica, un "tipo umano" che trascende le classi sociali e incarna lo spirito dell'epoca. L'operaio è colui che si fonde con la macchina, che abbraccia la tecnica come strumento di dominio sulla natura e sul mondo. È un essere disumanizzato, privo di individualità e di spiritualità, ma allo stesso tempo potente e inarrestabile, simbolo di un'umanità che ha abbandonato i valori tradizionali per abbracciare il progresso tecnologico.

Il saggio esplora le implicazioni di questa trasformazione antropologica, analizzando il rapporto tra uomo e macchina, la nascita della società di massa, il ruolo della guerra e della violenza nella modernità. Jünger, con uno stile asciutto e apocalittico quasi da autore di fantascienza distopica, dipinge un futuro in cui l'individuo è assorbito dalla "Gestalt" (forma) dell'operaio, un organismo collettivo che agisce in modo impersonale e meccanico.

L'opera di Jünger è profondamente ambigua ed antinomica: da un lato critica radicale della modernità, monito contro i pericoli della tecnologia e della massificazione; dall'altro,  celebrazione della potenza e della vitalità dell'operaio, un'esaltazione del nuovo ordine delle grandi macchine e delle grandi organizzazioni tecnocratiche.

A distanza di quasi un secolo dalla sua pubblicazione, "L'operaio" conserva una straordinaria attualità. In un'epoca dominata dalla globalizzazione e dal trionfo della tecnica che media ogni rapporto umano, le riflessioni di Jünger sul rapporto tra uomo e macchina, sull'evoluzione della società e sulla perdita di individualità appaiono più che mai pertinenti. L'operaio, lungi dall'essere una figura relegata al passato, sembra incarnare lo spirito del nostro tempo, un tempo in cui l'uomo è sempre più integrato con la dimensione tecnica come le intende Heidegger, ovvero  tecnica come modo di essere dell'uomo: pensate non tanto ai devices tecnologici quanto alla irregimentazione tecnica a cui ci sottopongono tuti gli enti pubblici e privati come banche, assicurazioni, fornitori di servizi essenziali. Noi piccoli operai obbedienti, operai nell'atto di sottostare alla tecnica e nell'atto di consumare.

Descritto in maniera molto attuale, l'operaio non è un semplice proletario, ma un simbolo dell'uomo moderno, plasmato dalla tecnologia e dalla produzione di massa. L'operaio è colui che si fonde con la macchina, che ne diventa un'estensione. La tecnica è vista come strumento di dominio sulla natura e sul mondo. L'operaio è il prodotto della società di massa, un individuo disumanizzato, privo di individualità e di spiritualità.

Jünger poi analizza il ruolo della guerra e della violenza nella modernità, vedendole come espressioni della potenza dell'operaio, oggi potremmo dire esportazione forzata della democrazia, esportazione e difesa di modelli globalizzati di consumo asservito e favorito dalla tecnica.

  • L'attualità del saggio: Le riflessioni di Jünger sul rapporto tra uomo e macchina, sull'evoluzione della società e sulla perdita di individualità sono ancora oggi estremamente pertinenti.

"Il trattato del ribelle" (Der Waldgang) di Ernst Jünger, pubblicato nel 1951, quasi 20 anni dopo l'operaio, è invece un'opera complessa e affascinante che esplora la figura del ribelle in un mondo sempre più dominato dalla tecnologia, dalla massificazione e dal controllo sociale. Jünger, con la sua prosa lucida e penetrante, delinea un percorso di resistenza individuale di fronte all'avanzare di un sistema totalitario che egli chiama "Leviatano".

Il ribelle di Jünger non è un rivoluzionario che cerca di rovesciare il sistema con la violenza, ma un individuo che sceglie di sottrarsi al suo controllo, di vivere "oltre la linea" (Über die Linie), in una dimensione di libertà interiore e di autonomia. Il "Waldgang", tradotto letteralmente come "andare nel bosco", simboleggia questo distacco dal mondo, questo ritorno a una condizione di naturalezza e di indipendenza.

Il ribelle jungeriano è un uomo che ha compreso la natura oppressiva del sistema e che decide di opporvi una resistenza silenziosa ma ferma. Non si tratta di una fuga dalla realtà, ma di una scelta consapevole di vivere secondo i propri principi, di preservare la propria individualità di fronte alla massificazione.

Nel "Trattato del ribelle", Jünger analizza le diverse forme di ribellione, dalla resistenza passiva alla disobbedienza civile, fino alla creazione di spazi di libertà alternativi al sistema dominante. Il ribelle non è un eroe romantico, ma un uomo comune che, con coraggio e determinazione, sceglie di vivere autenticamente, di non piegarsi alle logiche del potere.

L'opera di Jünger, scritta nel contesto del dopoguerra e della Guerra Fredda, conserva una straordinaria attualità. In un'epoca dominata dalla globalizzazione, dai modelli liberisti di consumo e dalla sorveglianza di massa da parte dello Stato, il gelido mostro di Nietszche, che entra nei più piccoli particolari della vita di individui e micro comunità, la figura del ribelle assume un nuovo significato. Il "Waldgang" può essere interpretato come un invito a resistere alle nuove forme di controllo sociale, a preservare la propria libertà di pensiero e di azione in un mondo sempre più omologato.

  • La figura del ribelle: un individuo che si oppone al sistema dominante non con la violenza, ma con la resistenza individuale e la disobbedienza.
  • Il "Waldgang": il distacco dal mondo, il ritorno a una condizione di naturalezza e di indipendenza.
  • La resistenza al Leviatano: il ribelle si oppone al sistema totalitario che minaccia la libertà individuale.
  • Le forme di ribellione: dalla resistenza passiva alla disobbedienza civile, fino alla creazione di spazi di libertà alternativi.
  • L'attualità dell'opera: un invito a resistere alle nuove forme di controllo sociale e a preservare la propria libertà in un mondo globalizzato.

"Il trattato del ribelle" è un'opera fondamentale per comprendere le sfide del nostro tempo e per riflettere sul ruolo dell'individuo nella società contemporanea. Un testo che ci invita a resistere all'oppressione, a difendere la nostra libertà e a cercare un nuovo equilibrio tra individuo e sistema. Il trattato del ribelle è una presenza costante sul mio comodino, ogni tanto va riletto traendone sempre spunti nuovi, è una buona medicina.

"L'operaio" (1932) e "Il trattato del ribelle" (1951) sono due opere fondamentali di Ernst Jünger, scritte in momenti storici e personali molto diversi, ma legate da un filo conduttore che attraversa l'intera riflessione dell'autore.

L'operaio nasce in un periodo di forti tensioni sociali e politiche, alla vigilia dell'ascesa del nazismo. Jünger, pur non aderendo mai al partito, mostra un certo fascino per la figura del lavoratore-soldato, simbolo di una nuova era dominata dalla tecnica e dalla disciplina. L'operaio è visto come l'incarnazione di una forza impersonale e inarrestabile, capace di plasmare il futuro dell'umanità.

Il trattato del ribelle, invece, è scritto nel dopoguerra, in un mondo segnato dalle tragedie del nazismo e della Seconda Guerra Mondiale. Jünger, profondamente colpito da questi eventi, rivede la sua posizione e propone una nuova figura di resistenza: il ribelle, un individuo che si oppone al sistema totalitario con la forza della propria individualità e della propria coscienza morale.

Nonostante le differenze di contesto e di prospettiva, tra le due opere esiste un legame profondo. Entrambe riflettono sulla trasformazione dell'uomo nella società moderna, sull'impatto della tecnologia e del potere, sulla necessità di trovare una via di fuga dall'oppressione:

  • La critica alla modernità: entrambe le opere esprimono una profonda critica alla modernità, vista come un processo di disumanizzazione e di massificazione.
  • Il ruolo della tecnologia: la tecnologia è al centro di entrambe le opere, ma con una valutazione diversa. In "L'operaio" è vista come una forza inarrestabile che plasma l'uomo nuovo, mentre nel "Trattato del ribelle" è vista come uno strumento di controllo e di oppressione.
  • L'importanza dell'individuo: nonostante la visione pessimistica della società di massa, Jünger non rinuncia a valorizzare l'individuo. L'operaio è un individuo che si fonde con la massa, ma il ribelle è colui che si oppone alla massa e afferma la propria individualità.
  • La ricerca della libertà: entrambe le opere sono animate dalla ricerca della libertà, intesa come autonomia individuale e capacità di resistere all'oppressione.
 L'esperienza del nazismo ha segnato profondamente Jünger, portandolo a rivedere le sue posizioni e a sviluppare una critica più radicale al totalitarismo, mentre la guerra ha rafforzato in Jünger la consapevolezza della fragilità dell'uomo e della necessità di resistere alla violenza e alla sopraffazione. Il percorso di Jünger è segnato da una continua evoluzione intellettuale e spirituale, fino alla fine della sua lunga vita durata oltre 100 anni, che lo porta a maturare una visione complessa e sfaccettata della realtà.