Eraldo era seduto sulla panchina, composto e riservato come al solito. Con una mano si aggiusta i capelli che iniziano ad essere ricoperti da qualche filo bianco, con l'altra mano tiene stretto il manico del suo borsone scuro, pronto a sollevarlo per saltare sul treno. L'aria umida e nebbiosa fa risaltare gli odori dell'erba che oramai cresce disordinata tra i binari, mentre l'orologio della stazione segna le 12.23. Le lancette hanno sempre la stessa posizione, come due amanti dubbiosi che non riescono ad avvicinarsi più di così ma nemmeno ad allontanarsi. Le lancette si guardano immobili da quando l'orologio ha cessato di vivere, con il vetro rotto testimone del tempo che non scorre. Nel piccolo ufficio del capostazione le carte svolazzano comandate solo dal vento e non più dalle sue mani ordinate. Sulla scrivania un giornale ingiallito del 31 marzo 1971. Eraldo aveva sei mesi quando il padre morì. Cresciuto con una mamma bambina da accudire, ha sempre atteso un padre con cui rafforzarsi facendo la lotta, un padre che gli facesse da specchio della sua identità maschile e lo incoraggiasse ad intraprendere, consentisse la crescita della sua autostima stimolandolo a provare le sua abilità dapprima in un ambiente protetto, per poi esporsi al mondo. Eraldo attende che il treno destinato a portargli questo padre passi sul binario, attende da 40 anni che a lui devono essere sembrati un giorno.
Questa stazione abbandonata e fantasma è il simbolo della nevrosi ossessiva che avvolge e protegge Eraldo, che per esporsi al mondo vuole prima incontrare un padre che formi le sue capacità di affrontare le cose. Nel frattempo si protegge attraverso i mille dubbi che si formano nella sua mente ogni volta che deve effettuare un scelta, attraverso il controllo maniacale che filtra tutte le sue azioni, idee, relazioni, con il risultato di rimanere bloccato ed inane ma, nella sua fantasia, protetto dalle possibili conseguenze negative dell'esposizione al mondo. Eraldo vive ma non ama, vive ma non lavora, vive ma non gioisce, vive ma non piange, vive ed aspetta. Aspetta che passi il treno che gli porti il papà della sua infanzia, un treno su cui finalmente saltare felice. Il tempo all'interno della stazione è fermo, fuori scorre freneticamente, le cose cambiano, evolvono, Eraldo ne ha sentore, più passa il tempo più il mondo che sta fuori gli diventa estraneo e terrificante. Qualcuno lo deve mettere in contatto con la possibilità che quel treno non passi mai e che, attraversato il lutto e fattosi meno lancinante il dolore della perdita, lui potrà iniziare ad affacciarsi fuori dalla stazione, in un mondo inizialmente terrificante ma nel quale potrà trovare le forza di crescere, potrà trovare le delusioni, la competizione, l'offesa così come l'amicizia, l'amore, la natura, tessendo una relazione che piano piano possa vitalizzare un intrapsichico coartato e considerato, in maniera auto riflessiva, privo di mezzi e poco attraente per gli altri. Questo delicato compito tocca al suo psicoterapeuta, che dovrà essere paziente e delicato, potrebbero volerci anni per mettere Eraldo a contatto con questa realtà, nello stesso tempo curioso e determinato a compiere questo viaggio inseme al paziente, accompagnandolo in luoghi della mente unici ed irripetibili. Nemmeno alla psicoterapeuta è dato di conoscere in anticipo questi luoghi, li vede per la prima volta mentre li esplora con il paziente. Viceversa lo psicoterapeuta ha dalla sua parte il saper viaggiare, è un viaggiatore esperto che ha percorso chilometri e chilometri in luoghi della mente sconosciuti ed inattesi, con tante persone diverse, così ha imparato il piacere e la tecnica del viaggio, ha imparato ad affrontare imprevisti ed aiutare il paziente a cavarsela durante i percorsi.