domenica 6 gennaio 2013


Sul perdere il lavoro…


In quest'articolo ci occuperemo delle persone che perdono il lavoro e sono già avanti con gli anni, diciamo dai 50 in poi.

Vedremo come la perdita del lavoro non sempre costituisca un problema di carattere meramente economico, ma coinvolga temi profondi riguardanti l'identità.

Vedremo come molte persone tra i 50 ed i 65 anni, per lo più uomini, potrebbero trarre vantaggio da una consulenza professionale che li aiuti a rivedere le loro vite, pur non necessariamente soffrendo di qualche forma di psicopatologia.

Iniziamo con il "lavoro". La Repubblica italiana è fondata sul lavoro. Così recita la nostra costituzione, in questi giorni oggetto di fine esegesi comica.



 A memoria personale, quindi a partire dagli anni '60 fino ai nostri giorni, la casta partitica dominante ha utilizzato il lavoro come la Chiesa cattolica utilizzava le indulgenze nel medioevo. Merce di scambio. 

Chi è stato giovane negli anni '70 ricorda come già il mercato del lavoro fosse drogato dalle raccomandazioni, dall'aspirazione ad entrare in un posto pubblico, dalla rete familiare su cui i più fortunati potevano contare. Lo sviluppo personale, professionale  e imprenditoriale, riguardava una minoranza di casi, minoranza per fortuna nutrita, ma pur sempre minoranza. 

Martin Lutero rovesciò il tavolino e pose fine alla vendita delle indulgenze; in attesa che arrivi il nostro Lutero, dobbiamo osservare che questa condizione, perdurante fino ai nostri giorni, ha creato in Italia uno scenario psicologico piuttosto particolare: da un parte chi ha il "lavoro" continua a considerarlo come un diritto inalienabile, con tutto il corteo di garanzie sindacali che ne consegue, chi non lo ha non gode di alcuna garanzia e chi lo perde si ritrova senza un pezzo di identità.

La psicologia individuale presenta  delle strutture invarianti che passano indenni attraverso epoche e contesti culturali. Altre strutture, come l'identità personale, invece risentono fortemente del clima culturale e di come vediamo "gli altri" rispecchiati in noi.

Vediamo come questa particolare condizione legata al lavoro ha influenzato la psicologia di ciascuno di noi. 

Il lavoro in Italia rischia di essere  percepito come un "favore" (da ripagare in maniera salata, con soldi o clientele) piuttosto che una condizione di possibilità che debba essere facilitata dal patto sociale che lo Stato incarna. Chi l'ha conquistato da solo, a maggior ragione, investe sul lavoro, proprio perché merce rara; chi l'ha ottenuto attraverso raccomandazioni o attraverso la rete familiare investe sul lavoro perché deve poi meritarselo, in altri casi si investe solo sul tenerselo stretto.

La generazione dei "baby boomers", le persone che oggi hanno tra i 50 ed i 65 anni, è cresciuta con l'idea del "Progresso", l'idea che le cose con il tempo miglioreranno sempre. 

I baby boomers hanno costruito la loro identità attorno all'orologio, sfruttando il tempo con il metodo di quel materialismo scientifico con cui hanno provato a fare la rivoluzione. Uomini e donne d'azienda, da attività imprenditoriale, impiegati pubblici con un altro lavoro in nero appena usciti dal ministero, per pagare il mutuo di una casa in un quartiere meno periferico di quello d'origine, per pagare l'università ai figli, la casa al mare o le rate della macchina, in altre parole per finanziare un benessere forse non essenziale.

Non era facile ottenerlo, ma una volta avuto il lavoro diventa fagocitante, l'identità si modella sul lavoro, non viceversa. Spesso le famiglie, gli affetti, la cultura, il benessere e l'esercizio fisico vengono sacrificati al lavoro, non tanto per senso di dovere ma perché è principalmente sul lavoro che l'identità viene a fondarsi.  L'azienda, l'attività imprenditoriale, la professione sono fonte di lamentele perché il rapporto con loro  è ambivalente, dipendiamo da loro e non ci piace, però non ne possiamo fare a meno. 

Il giovanilismo a tutti i costi che contraddistingue i "baby boomers" rende difficile adeguare i ritmi all'età che avanza: viaggi di lavoro interminabili, riunioni serali, ritmi da trentenne rampante. Anche la transizione cognitiva è totalmente negata. Siamo diventati più bravi ad avere una visione d'insieme, meno analitici e puntuali, la memoria a breve termine funziona di meno e facciamo sempre più fatica a "stare sul pezzo". Ma non importa, pretendiamo sempre le prestazioni da trentenne. La "visione d'insieme" comunque non funziona perché non ci prendiamo tempo per passeggiare, pensare, studiare, riflettere. Quando abbiamo finito con i figli subentrano subito i nipoti, per i quali diventiamo volentieri genitori a tutti gli effetti.

Quando il lavoro si perde, perché licenziati, perché l'attività non va più, la professione rende di meno o, per i più fortunati, perché andiamo in pensione, si spezza qualcosa di importante. Si spezza un sistema difensivo, un mostro autoreferenziale e fagocitante che ha pilotato le nostre vite.

E lascia il vuoto.

Ci accorgiamo che il nostro giardino nel frattempo è andato in malora e ci sembra un'impresa troppo grossa levare le erbacce, potare, zappare, riseminare ed innaffiare.

Per al prima volta nella vita abbiamo tempo, il tempo che abbiamo spesso desiderato, e non sappiamo cosa farci. 

Siamo abituati al tempo storico, progressivo, al prima e al dopo.

 Agostino d'Ippona già nel V secolo dopo Cristo sottolineava come il tempo fosse una costruzione cognitiva, una percezione dell'uomo e del suo intelletto imperfetto;  un bisogno di ordinare le cose razionalmente, attribuendo loro un prima e un dopo. Il tempo divino, secondo Agostino, è invece un eterno presente. Se Dio avesse un passato o un futuro sarebbe anche lui soggetto alle leggi del cambiamento, quindi non sarebbe Dio. L'Eternità è il presente.  



Abituato al tempo storico che scorre, chi perde il lavoro si trova finalmente in mano il tempo presente, il suo tempo personale. Paradossalmente il tempo diventa un angoscioso baratro senza fine all'interno del quale precipitare, perché il presente non ha mai avuto senso. 

Non ha mai avuto senso fermarsi ed assaporare l'attimo, usare il proprio tempo per contemplare. 

Ed il senso della contemplazione non si crea dall'oggi al domani. Solo fermandosi ad osservare se stessi ed il mondo si può cogliere la propria identità, quel vero sé ammantato dagli orologi, dal tempo storico, dall'identificazione con un lavoro ed un progresso sociale che di colpo si rivelano moneta falsa, che non può più essere spesa, carta straccia.



La depressione fa capolino, il corpo dà segnali negativi, conosciamo l'ansia dell' affrontare le cose, sentimenti forse prima sconosciuti o quantomeno silenziati.  L'unico modo che conosciamo per far fronte alla situazione è cercare di tornare a fare quello che facevamo prima, magari da un'altra parte.

Nel lavoro clinico ho avuto modo di osservare come sia difficile uscire da soli da questa sorta di sabbie mobili. Ho visto come molte volte occorra un percorso dentro di sé, un viaggio accompagnato, che aiuti ad imparare a tollerare il peso dell'eterno presente, imparare a considerarlo un 'opportunità invece che un baratro che lascia sgomenti, imparare ad abitare il tempo.

In un prossimo articolo vorrei invece occuparmi delle persone tra i 20 ed i 40 anni, che invece sembrano non aver più diritto ai loro sogni, ad un lavoro che rinforzi l'autostima, che costruisca un adeguato senso di sé.

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