venerdì 16 settembre 2022

TENTAZIONE D’ESISTERE E NOSTALGIA: IN MEMORIA DI RENZO CARLI

 Renzo Carli è stato un innovatore della psicologia clinica fornendone una visione non confinata al setting psicoterapeutico e psicodiagnostico. Provenendo già da una formazione tradizionale nell’area della psicoterapia psicoanalitica e della psicoanalisi interpersonale, sono stato suo allievo nella scuola di specializzazione in psicologia clinica della Sapienza, prima scuola di specializzazione universitaria in questa disciplina, prima specializzazione abitata a rilasciare il titolo di psicoterapeuta e, per anni, unica specializzazione dell’area psicologica che permetteva di accedere ai concorsi per il servizio sanitario nazionale. Io sono stato il primo a presentare la tesi e conseguire il titolo di specialista in psicologia clinica, indirizzo psicoterapia individuale e di gruppo.

Molti primati fenomenici. Ma il primato vero è sia di natura operativa che di natura culturale. Non è trascorso nemmeno un anno e mezzo dalla mia seconda specializzazione, quella che mi ha visto allievo di Renzo, che ho deciso di abbandonare il servizio sanitario nazionale. Paradossalmente, pur essendo il titolo di specialista in psicologia clinica l’unico che formalmente permetteva di accedere ai concorsi, nella pratica quotidiana il SSN era un luogo dove quelle competenze specialistiche non avevano alcun modo di essere esercitate. Colsi quindi l’occasione della nascita di mio figlio per abbandonare quella che ormai era una vecchia nave che preferiva le acque sicure del porto o al massimo una navigazione costa-costa con tratti brevi, un legno marcio e odorante di stantio, autoreferenziale e isolata dalla cultura e dal territorio come la stultifera navis  di Foucault.

E così la prima importante ricaduta del percorso di specializzazione ideato e condotto da Renzo fu per me la possibilità di divertirmi tantissimo e mantenere la mia famiglia senza dover passare la mattinata a morire di noia.

Avevo imparato a guardare il setting psicoterapeutico come un incontro tra significanti che davano luogo a infinite e complesse reti di relazioni, uno spazio tempo in cui potevano confluire le interiorizzazioni dinamiche individuo - gruppo - organizzazione - contesto, visti sia del paziente che del terapeuta in maniera intersoggettiva La clinica consisteva nell’osservazione, riflessione, elaborazione, supporto attivo e interpretazione del dispiegarsi di queste dinamiche nel laboratorio costituito dalla interazione psicoterapeutica, sia nel qui ed ora della relazione sia nell’aspetto storico della relazione stessa e della narrazione storica e attuale delle relazioni del paziente.


Attraverso una formazione centrata sul pensare ed elaborare il rapporto tra significanti, attraverso l’ausilio del gruppo di formazione e dell’analisi della domanda formativa e del contesto in cui si dispiegava, ho imparato sulla  mia pelle il metodo clinico. Io e i miei colleghi abbiamo anche studiato molto e appreso di vari apporti, dalle psicoanalisi storiche e contemporanee alle più avanzate teorie provenienti dagli studi sul cognitivismo, dallo studio delle rappresentazioni sociali alle teorie costruttiviste e sistemiche. Ma la parte più interessante ed eccitante della formazione rimaneva il riflettere in gruppo, a partire dall’analisi della nostra domanda di formazione e delle dinamiche del contesto universitario. I colleghi stessi di specializzazione per me sono stati una preziosa fonte di formazione, non solo i docenti. Un’esperienza,unica nel contesto delle mie frequentazioni universitarie, che recuperava il senso della universitas nei suoi momenti aurorali, che nacque nel medioevo costituita dalla corporazione di studenti e docenti, mentre gli studenti stessi delle facoltà delle arti presto diventavano anche docenti tenendo corsi e lezioni ai colleghi. Fu così che appresi un metodo di lavoro, il metodo psicologico clinico, che poteva essere declinato in qualsiasi ambito.


Era il totale superamento della psicologie al genitivo. Tuttavia devo ammettere che le psicologie al genitivo non solo sono sopravvissute, ma ha hanno dimostrato anche un vantaggio evolutivo (in senso stretto: la capacità di generare prole quindi di riprodursi) rispetto alla psicologia clinica che con il suo metodo ha osato “invadere” settori di business bel delimitati e definiti. Se dovessi cercare un perché potrei azzardare l’ipotesi di una maggiore complessità culturale e quindi formativa della psicologia clinica di Renzo Carli, contrapposta alla facilità di trovare risposte brevi e più facile nelle tecniche che sostengono le psicologie al genitivo, che presentano quindi un appeal maggiore per una domanda formativa che vuole (illudersi di) imparare velocemente e a buon mercato, sostenuta dall’ansia di un posizionamento rapido nel mercato del lavoro, che tuttavia quasi mai avviene nei termini immaginati. Le psicologie al genitivo quindi generano una domanda formativa più vasta e ampia, talvolta irriflessiva, generano più “prole” e così mostrano un vantaggio evolutivo, ben inteso autoreferenziale all’interno della categoria degli psicologi, è da discutere se vi sia un concreto vantaggio in termini di risposta ai bisogni della società civile.

Quindi ho fatto il formatore, il supervisore, il direttore di ricerca oltre che lo psicoterapeuta, fondandomi sul metodo psicologico clinico.


Attraverso il metodo psicologico clinico ho poi collaborato per 12 anni con la federazione italiana tre know do, collaborazione culminata nel 2012 con le medaglie d’oro e di bronzo alle Olimpiadi di Londra. Nessuno degli psicologi al genitivo, ovvero in questo caso psicologi dello sport, mi ha chiesto come sia potuto succedere. Per la verità non so nemmeno se si siano posti la domanda.


Il metodo psicologico clinico, in estrema sintesi, prevede:

  • un approccio alla realtà intersoggettiva, forma d’esperienza basata sulla relazione.
  • un’osservazione della relazione e produzione di pensiero su quanto accade in termini di significanti che si interfacciano e si declinano dinamicamente nel continuum individuo-gruppo-organizzazione-contesto.
  • uno studio storico della narrazioni della personalità e dei suoi legami con i contesti di riferimento, familiare, lavorativo, formativo, sociale.
  • la sospensione dell’azione e l’analisi della domanda come prima interfaccia nella quale si declinano i mondi intersoggettivi di paziente e terapeuta o di cliente e consulente.

SI studia il rapporto tra significanti come produzione aurorale dei vari tipi di linguaggio che sono essi stessi simboli e non semplici rappresentazioni. Sappiamo da Lacan come i linguaggi siano espressione di desiderio verso l’altro e di desiderio di desiderare, espressione quindi di un bisogno che si declina in domanda.

Ridurre il significante al proprio significato, secondo il celebre algoritmo di Saussure, significa ipostatizzare e irrigidire, consapevoli con Wittgenstein che il significato di un significante altro non è che il suo uso. E l’uso di un significante è inevitabilmente mediato e fissato nell’intervallo temporale della sua esistenza dalla microcultura linguistica, ci racconta del modo di esser inconscio della mente soltanto sui tempi lunghi e perdendo il dinamismo necessario per la nostra attività ermeneutica.


Potendolo ora osservare da lontano contributo culturale di Renzo si staglia all’orizzonte come il massiccio granitico del Soratte si staglia nella pianura dell’agro romano. La pianura è metafora dell’appiattimento culturale della vecchia Europa sul mondo anglofono. Il Soratte, enorme masso granitico, è la nostra cultura europea, di cui profumano i libri e i dialoghi di Renzo: in quella roccia di granito si può distinguere l’impronta di Lacan, quindi di  Kojéve, nipote di Vassilj Kandinsky, poi Nietzsche, Marx, Hegel, Heidegger, Husserl. 


Tanta roba. Fondazione culturale che evoca quell’era straordinaria di fine ottocento/primi novecento, che evoca la suggestione quasi erotica di Parigi e la serietà e compostezza di Heidelberg, il fascino di una Russia non ancora devastata dal bolscevismo e dallo stalinismo, alla quale ancora si permetteva di fecondare a pieno titolo la cultura europea.

Dal punto di vista più strettamente psicoanalitico in Renzo potevamo sentire l’eco del pensiero rigoroso di Wilfred Bion e Ignacio Matte Blanco, gli unici due psicoanalisti che hanno prodotto degli scritti con il linguaggio proprio di una teoria, gli altri hanno prodotto tutti degli scritti in un linguaggio metainterpretativo o parascientifico.

Renzo Carli basava i suoi scritti su un’epistemologia della complessità, della reticolarità, della probabilità, che è la stessa epistemologia su cui si fonda la fisica quantistica.

Il mondo anglofono che ci ha colonizzato culturalmente e linguisticamente si fonda su un’epistemologia più datata e molto meno sofisticata, ovvero il neopositivismo e il riduzionismo scientifico che hanno le loro radici in Bacone e in Cartesio, ovvero nell’età moderna.


La Psicologia Clinica di matrice anglofona negli anni 70’ del 900 era ancora null’altro che un minestrone di tecniche psicodiagnostiche e psicoterapeutiche, basta consultare il buon vecchio manuale di Korchin per rendersene conto.

Oggi il riduzionismo e lo scientismo imperante, nonché il vantaggio evolutivo delle psicologie al genitivo, rischia di riportare la psicologia clinica ad un nuovo supermercato di tecniche, magari più sofisticate ed evidence based, dove chi si forma può mettere nel carrello di volta in volta la meglio pubblicizzata, la più semplice da apprendere, la più redditizia, quella che maggiormente si presta a mantenere intatto l’assetto delle proprie difese psicologiche.

Molti testi universitari, imposti obbligatoriamente anche dai famigerati ECM, altro non sono che compilation di tesi di laurea, prodotti in fretta sulla spinta a pubblicare data dal meccanismo di valutazione ministeriale dei docenti. Sono nozioni ammantate di evidence based, secondo la nuova religione dello scientismo per la quale attraverso il semplice ricorso al metodo scientifico e al riduzionismo si produce verità assoluta e incontrovertibile, sostituendo bibbia, corano e torah nella promulgazione della Verità. Il pragmatico minestrone di tecniche della psicologia clinica senza testa e senza metodo degli anni ’70 rischia così di essere riciclato e presentato con un maquillage scientifico, come una patetica vecchia che non sa invecchiare e va in giro in minigonna, guance gonfie, labbra a canotto e seno a palloncino.


Sapere che Giovanni “ha” l’attaccamento disorganizzato, Mariangela “ha” l’accudimento distanziante e Jacopo “è” un narcisista cover aiuta lo psicologo clinico ne più e ne meno come Google Maps aiuta a guidare. Ci fornisce la mappa, che, scontatamente, non è il territorio. Soprattutto non ci dice come dobbiamo guidare, non dice come usare il freno a mano per derapare escludendo l’ABS a chi, come me, abita in montagna e sventatamente non guarda il meteo e si può trovare a rincasare la sera sui tornanti innevati. Ma non ci dice nemmeno come possiamo fare un semplice parcheggio. Così i neo-psicologi, aspiranti psicoterapeuti, si rivolgono alle quelle scuole di specializzazione fondate su un’unica tecnica, sulla quale poi si monta una para-teoria, sulla quale poi si fonda una scuola di specializzazione in psicoterapia. La speranza è quella di trovare qualche “dritta” per trovare lavoro anziché elicitare una domanda ancora implicita e potervi rispondere professionalmente; trovare lavoro, semplicemente e rapidamente e non dover mai essere costretti, per brevità, orientamento culturale, ansia da separazione da famiglie eternamente neoteniche, a dover analizzare e ripensare la loro stessa prospettiva professionale.


La scienza è inevitabilmente approssimazione, probabilità, tentativo, gusto della scoperta. Oggi la scienza promana sicurezze e spacciando per scienza ciò che altro non è che tecnica, o meglio ancora tecnologia. Ricordiamo il modo in cui Martin  Heidegger pensa la tecnica, che è soltanto gestell, ovvero supporto, e non può mai essere una rinuncia a pensare. La scienza invece dovrebbe essere la culla del pensiero sugli enti, riservando il pensiero sull'essere alla filosofia, sempre seguendo il pensiero di Heidegger.

Il riduzionismo e la celebrazione della tecnica mascherata da scienza come nuova metafisica, nella psicologia clinica e in generale nella cultura, sono invece un salto indietro di 400 anni, una sorta di ritorno all’experimentum crucis, al tavolo degli imputati di baconiana memoria sul quale veniva posta la Natura per farle confessare i suoi segreti attraverso le tecniche sperimentali.

I libri di Renzo sono visibilmente frutto della fatica del pensare e coinvolgono sempre il lettore al quale viene chiesta una partecipazione attiva, il Lector in fabula di cui scrive Umberto Eco.

Sono onorato di aver fatto fatica con Renzo Carli, sui libri e di persona. Non sono stato un discepolo modello, la fretta di fare e la continua tentazione di esistere, viva in me come una vera e propria ossessione, mi ha portato lontano dalle sue rotte fenomeniche, ma sempre nell’ambito della sua forte impronta culturale e formativa. 


Chi avrebbe detto che sarei, col tempo, diventato un nostalgico?

Renzo, penso di non averti mai ringraziato, andavo troppo di fretta. Perdonami se puoi. Ricordo una delle tue azioni interpretative, come tu le denominavi. Una volta mi ricevetti al Vicolo del Cedro per parlare di un tema di lavoro. Io arrivai tutto impostato, mentre tu stappasti una bottiglia di un ottimo vino bianco, memore delle nostre comuni origini venete.

Nostalgia, colpa e pentimento vanno a braccetto, caro e indimenticabile Renzo, per favore, dammi modo di ringraziarti ora.

sabato 7 settembre 2019

Canis Sapiens et Homo Faber. Divagazioni su mente e linguaggio


Gli manca solo la parola…


Quante volte abbiamo sentito questa frase in bocca a persone sinceramente innamorate del proprio cane. Eppure questa frase è sintomo di un pregiudizio, spesso inconsapevole, antropocentrico e specista, ovvero di una cultura che misura tutto sul metro dell'uomo, l' “Homo Mensura” del filosofo presocratico Protagora(1) Una forma di pensiero, non unica ma dominante da sempre nella cultura e nella filosofia occidentale, che pone l'uomo al centro dell'Universo ed in cima ad una presunta piramide assiologica.

In contrasto con l’antropocentrismo, negli anni '70 e '80 del secolo scorso si sono schierati, tra gli altri, due filosofi anglosassoni, Tom Regan(2) e Peter Singer(3), che hanno pubblicato due fondamentali testi in difesa dei diritti degli animali, dando vita alla corrente di pensiero filosofica e sociale degli animal rights, con sfumature ed accezioni anche molto diverse dalla corrente di pensiero filosofico detta deep echology(4), che raccoglie una lunga tradizione di attenzione alla Natura Mater che passa dai Pitagorici, ai filosofi neo-platonici, Giordano Bruno, Baruch Spinoza e parte della letteratura e filosofia romantica.

Secondo Singer l'atteggiamento antropocentrico della cultura occidentale arriva a definirsi come specismo: “Lo specismo... è un pregiudizio o atteggiamento di prevenzione a favore degli interessi dei membri della propria specie a sfavore di quelli dei membri di altre specie. Dovrebbe risultare evidente che le fondamentali obiezioni avanzate nei confronti del razzismo e del sessismo da Thomas Jefferson e Sojourner Truth sono altrettanto valide nei confronti dello specismo. Se il possesso di un superiore livello di intelligenza non autorizza un umano ad usarne un altro per i suoi fini, come può autorizzare gli umani a sfruttare i non umani per lo stesso scopo?”(5)

Jeremy Bentham, filosofo liberale e giurista inglese, già nei primi dell'Ottocento scriveva: “C'è stato un giorno, e mi rattrista dire che in molti posti non è ancora passato, in cui la maggior parte del genere umano, grazie all'istituzione della schiavitù è stata trattata dalla legge esattamente nello stesso modo in cui, per esempio in Inghilterra, sono trattate ancora le razze inferiori di animali.
Forse verrà il giorno in tutte le altre creature animali si vedranno riconosciuti quei diritti che nessuno, che non sia un tiranno, avrebbe dovuto negar loro. I Francesi hanno già scoperto che il colore nero della pelle non è una buona ragione perché un uomo debba essere abbandonato, per motivi diversi da un atto di giustizia, al capriccio di un torturatore. Forse un giorno si giungerà a riconoscere che il numero delle zampe, la villosità della pelle o la terminazione dell'osso sacro sono ragioni altrettanto insufficienti per abbandonare a quello stesso destino un essere senziente. In base a che cos'altro si dovrebbe tracciare la linea insuperabile? In base alla ragione? O alla capacità di parlare? Ma un cavallo o un cane che abbiano raggiunto l'età matura sono senza confronto animali più razionali e più aperti alla conversazione di un bambino di un giorno, di una settimana o di un mese. Supponiamo che così non fosse; che cosa conterebbe? La domanda da porsi non è se sanno ragionare, né se sanno parlare, bensì se possono soffrire.“ (6)

Il primo movimento antispecista ha avuto il merito storico di sollevare l'attenzione sul rapporto violento e strumentale che l'uomo ha intrapreso con gli animali, soprattutto dall'età moderna in poi, da quando Cartesio (7) li considerò macchine prive di anima, utilizzando teorie razionaliste non lontane dal moderno cognitivismo.

Il primo movimento antispecista ha dimostrato che gli animali possono avere il nostro stesso diritto a non soffrire,in primis quelli che godono della individualità soggettiva così come ne godiamo noi (considerando almeno i mammiferi in buona salute e al di sopra di un anno di età), e da questa soggettività, in qualità di pazienti morali (8), traggono il diritto teleologico a sviluppare e compiere la loro vita. Altri animali godono di forme di soggettività diversa dalla nostra o, chissà, non ne godono affatto. E qui c’è da pensare se il diritto alla vita passi esclusivamente attraverso l’esistenza di una soggettività e di una coscienza, ancora una volta sul modello umano, oppure se ad avere caratteristiche di sacralità e inviolabilità sia la vita in sé, che tutte le creature condividono, nel tentativo di portarla avanti attraverso nascita, sviluppo, riproduzione e declino.

E' stato un primo passaggio importante perchè il riconoscimento del fatto che gli animali posseggano emozioni, sensibilità, che abbiano un desiderio di vivere e non soffrire li avvicina a noi e mette gli uomini in condizione di empatizzare, ovvero di capire che possono provare emozioni simili alle nostre.

Il “volto” di questo Razza ci meraviglia, ci convoca e ci invoca, come direbbe Levinas limitando però il suo discorso agli esseri umani.


Si tratta di un “volto” nel quale possiamo percepire, per dirla con Gregory Bateson (9), una struttura identica alla struttura del volto umano, nei rapporti spaziali esistenti tra bocca, occhi, naso e la rotondità del volto.

Ed è proprio questa struttura a far scattare, in persone sufficientemente sensibili, l'empatia.

Soggettività, individualità, empatia, grazie alle quali gli animali sarebbero “come noi” e, in funzione di ciò, degni di rispetto.

Tuttavia questo modo di vedere rimane sempre fondato sulla centralità umana visto che gli animali vengono rispettati “in quanto sono come noi o presentano forti analogie”, che è il medesimo presupposto culturale che apre il rubinetto da cui scaturisce la sperimentazione animale o, per meglio dire, la vivisezione, come va chiamata senza giochetti linguistici volti a spogliare l’evento significato attraverso la parola dalle emozioni connesse.

Esiste tuttavia una corrente di pensiero, un antispecismo di ultima generazione (10), secondo il quale nel pensare l'animale è più interessante ed importante porre l'accento sulle differenze che sulle similarità con l’uomo (11). Gli animali possono essere rispettati in quanto individui dotati di soggettività e di speranza di vita, non in quanto simili a noi o appartenenti ad una generica categoria logica ma non ontologica, come quella dell’animale (13).

Se invece considerassimo le differenze piuttosto che le analogie,apriremmo la via ad una serie di domande, sulle quali solo recentemente la comunità scientifica ha iniziato a riflettere creando a disciplina della Animal Cognition : come pensano i mammiferi superiori? E alcune razze di uccelli? Siamo sicuri di sapere come pensano gli animali non umani che più  che più frequentiamo e conosciamo, ovvero i cani?

Possiedono una mente? E se si, abitata da quali forme di pensiero? E’ possibile individuare in alcune specie delle forme di linguaggio? Ed è possibile che tra specie diverse si vengano a costituire linguaggi del tutto nuovi, originariamente non appartenenti né a una specie né all’altra?

Sono domande a cui sto lavorando, assistito dai miei principali partner scientifici e filosofici, 25 cani, di cui 22 di razza Border Collie e 3 pastorelle delle isole Shetland.

Gli uomini pensano in parole e immagini razionali e irrazionali, consce e inconsce, intrise di emozioni che talvolta diventano sentimenti, intrise dalle mappe della condizione dinamica di ogni distretto corporeo. Nella evoluzione dell'animale umano, viene prima il pensiero o il linguaggio? Esistono teorie che privilegiano entrambe le soluzioni (15).
Sta di fatto che il pensiero razionale ed il linguaggio verbale che lo accompagna nel pensiero occidentale sono sempre stati associati ad una presunta superiorità dell'animale umano nei confronti del resto degli animali.Tanto è celebrata, valutata, superiore ed inarrivabile questa differenza che nelle narrazioni evangeliche Dio sceglie il Verbo per incarnarsi nel mondo e la rivelazione Divina è portata agli uomini da Gesù Cristo, figlio di Dio, che è il Verbo. Nel Vangelo Secondo Giovanni, a differenza degli altri Vangeli dichiaratamente cristocentrico, l'incipit recita: “In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e Dio era il Verbo”.

Nelle interpretazioni teologiche maggioritarie la natura divina del Verbo è stata sempre letta come un privilegio concesso esclusivamente all'uomo, con la splendida eccezione incarnata da Francesco d'Assisi, che nella sua estrema umiltà parlava a “frate lupo” da pari a pari, entrambi da umili creature di Dio (16). Ma siamo sicuri che soltanto dove c'è il linguaggio verbale possa esistere una mente? E che il linguaggio verbale sancisca in via definitiva una superiorità dell'animale umano sugli altri, dal punto di vista ontolologico, morale, funzionale?

Sono il linguaggio ed il pensiero razionale/linguistico che conferiscono all'uomo superiorità sempre e comunque, a scapito di altre tipologie di linguaggio proprie dei diversissimi animali non umani, a scapito di menti animali, anche loro raffinate e sviluppate, anche se in direzioni molto diverse da quella evolutivamente intrapresa dalla mente umana (17)? Le caratteristiche umane sono frutto di una creazione che ha visto prendere vita creature discrete, separate le une dalle altre, oppure frutto di una evoluzione che mostra una continuità tra gli animali, compresi gli animali umani, e che a partire da una radice comune ha scavato profonde differenze legate alle funzionalità richieste dall’ecosistema? La diversità tra individui va sempre collocata su un piano gerarchico verticale assoluto, che. guarda caso, vede l’uomo al suo culmine? Oppure può essere vista come il prodotto di milioni di anni di evoluzione che ha condotto ad esseri viventi molto diversi, nelle quali sono presenti funzionalità diverse che possono mostrarsi vincenti o perdenti in termini evolutivi, ma solo se definiamo un contesto all'interno delle quali misurarle?
In altre parole, un albatros non potrà mai dipingere la Cappella Sistina, né Michelangelo Buonarroti, od ogni altro animale umano, potrebbe attraversare l'oceano volando ininterrottamente grazie alla facoltà di dormire di volta in volta con la metà del cervello. L'uomo è più intelligente o più potente, più avido, votato a combattere l’entropia a una velocità tale da consumare rapidamente tutte le energie disponibili? Ha sicuramente acquistato un dominio su tutta la natura, come se l'uomo non ne facesse parte, come se la natura fosse oggetto o risorsa da sfruttare prometeicamente (18).

La supremazia tecnica nasce dalla nostra particolare intelligenza? Forse sì, ma è una particolare forma di intelligenza che non è affatto scontato che coincida con il fatto che la vita umana sulla Terra possa continuare. E’ un bene assoluto che la vita sulla terra continui con l’uomo? Oppure il conatus che caratterizza la natura naturans in Spinoza espellerà la specie umana?

La tecnologia utilizzata per favorire solo una specie, la nostra, a scapito di tutte le altre, sembra essere stata  definitivamente separata dall'intelligenza in senso assoluto, segnando il trionfo dell’Homo Faber, dotato di un’enorme potere ma “stupido” e autoreferenziale, oramai scisso da ogni forma di responsabilità (19).
Prometeo plasma l'uomo. Olio su tela di Piero di Cosimo (1515)








1 «πάντων χρημάτων μέτρον ἐστὶν ἅνϑρωπος, τῶν μὲν ὄντων ὡς ἔστιν, τῶν δὲ οὐκ ὄντων ὡς οὐκ ἔστιν» ovvero: «Di tutte le cose è misura l’uomo, di quelle che sono, in quanto sono, di quelle che non sono, in quanto non sono».


Tom Regan: “Diritti Animali”, Garzanti, 1990.

 3 Peter Singer: “Liberazione Animale” , Il Saggiatore, 2015

Arne Naess: “The Ecology of Wisdom”, Penguin, 2008

Peter Singer, op. cit. 

Jeremy Bentham, “Principles of Morals and Legislation,”. (1823) Cap. 17, sez. 1

Cartesio, al secolo Renè Descartes, per le sue affermazioni è stato, giustamente, il principale bersaglio, perfino capro espiatorio di tutti i movimenti animalisti. C'è tuttavia da precisare che Cartesio rifletteva lo spirito dell’epoca: era il momento della fascinazione per le macchine, automi di tutti i generi venivano esibiti nelle corti imperiali. Il tema che premeva a Cartesio era quello di salvare i dettati teologici e non incorrere in fastidi inquisitori. Introdusse il conferimento da parte di Dio dell'anima razionale nell’uomo, senza la quale anche l'intelletto umano avrebbe potuto essere solo un inganno e il suo corpo una macchina come quello degli animali. Gli animali non erano sicuramente al centro negativo dei suoi interessi speculativi, anche se le conseguenze su tutta la cultura occidentale furono quelle di togliere definitivamente l’ “anima” agli animali che venivano considerati come “cose” e non esseri senzienti, capaci di intelletto, emozioni e sentimenti, capaci di essere “persona” (cfr. Roberto Mucelli: “Uomo è/e animale. Verso una filosofia dei linguaggi interspecifici.” Tesi di Laurea Magistrale in Scienze Filosofiche, Università di Macerata, 2018). Conseguenza del cartesianesimo è il dualismo che separa mente e corpo: l’una, la mente, conferisce linguaggio, razionalità e dignità alla persona umana, in quanto infusa e garantita da Dio; l’altro, il corpo, se privo di anima, semplice automa tra gli automi, funzionante a un livello animale e meccanico. Sulla base di questi assunti di tre secoli fa il mainstream della scienza attuale usa sperimentare sugli animali, in quanto si basa sull’assunto cartesiano della equivalenza meccanicistica dei corpi, umani o animali che siano.

L'uomo, secondo Regan, è “agente morale” perché ha la responsabilità diretta delle sua decisioni ed azioni, laddove animali non umani, ma anche uomini in stato comatoso, con gravi patologie cerebrali o bambini piccoli, sono pazienti morali, ovvero esseri che possono solo subire le decisioni degli agenti morali ma che entrano appieno nel mondo della morale come portatori di diritti ma non come agenti che hanno doveri. 

Gregory Bateson: “Mente e natura” (1980), Adelphi, 1984.

10 Leonardo Caffo, Felice Cimatti: “A come animale: voci per un bestiario dei sentimenti”. Bompiani, 2015.

11 Felice Cimatti, “Filosofia dell'animalità”. Laterza, 2013

13 Nessuno di noi ha mai visto o toccato un “animale”, piuttosto abbiamo visto dei singoli esseri con le loro peculiari caratteristiche. Quindi “animale” non ha una sua realtà fattuale, ma è una categoria logica. vastissima, che va dal dromedario al paramecio passando per l’uomo; quindi, è di scarsissimo valore euristico ed esplicativo, secondo una grossolana convenzione condivisa, sta a significare tutte le creature animate che non siano l’uomo.

14 Clive Wyne, Monique Udell: "Animal Cognition. Evolution, behavior, cognition. Second Edition, Red Globe Press, 2019.

 15 Stefano Gensini, Manuale di Semiotica, Carocci, 2004.

16 “I fioretti di San Francesco”. Rizzoli, 1979.

17 Frans de Waal. “Siamo così intelligenti da capire l’intelligenza degli animali?”. Cortina, 2016.

18 Pierre Hadot, “Il velo di Iside”. Einaudi, 2006.

19 Hans Jonas, “Il Principio Responsabilità” (1979). Einaudi, 1990.









domenica 11 marzo 2018

Petrademone. Il libro delle Porte. Di Manlio Castagna. Recensione.


 
Petrademone. Il libro delle porte.
Quando arriva a Petrademone, la tenuta tra i monti in cui gli zii allevano border collie, Frida è chiusa in un bozzolo di dolore. Ha perso entrambi i genitori e l'unica cosa che rimane di loro sono brandelli di ricordi in una scatola.
Ma in quello che potrebbe essere il posto ideale dove guarire le ferite dell'anima, qualcosa striscia nell'ombra sotto la grande quercia.
I cani della zona spariscono senza un guaito, come se un abisso li avesse ingoiati.
La zia, colpita da una malattia inspiegabile, rivela a Frida un importante segreto di famiglia.
Insieme ai suoi tre nuovi amici e altri improbabili alleati, la ragazza si trova così a indagare tra strani individui che parlano al contrario o per enigmi, un misterioso Libro delle Porte e creature uscite da filastrocche horror.
Nessuno è chi sembra o pensa di essere, i poteri si rivelano, i mondi paralleli si toccano.
La nebbia si alza densa a Petrademone, e per Frida, Tommy Gerico e Miriam comincia l'Avventura, quella che cambierà le loro vite per sempre”.1
Un libro, uscito nel febbraio 2018, che è già un successo, una vera e propria rivelazione, il primo romanzo di una trilogia (apparentemente) per ragazzi che, secondo le prime recensioni, evoca autori come Burton, Rowling, King, Lovecraft. perfino Tolkien, senza avere nulla da invidiare da ciascuono di loro.
Un libro che non lascia mai una pausa al lettore, somigliando in qualche modo ai cani che ne sono protagonisti: i border collie, sempre pronti ad esseregioiosi ed attivi.
Così, come nella vita con i border collie, il ritmo della narrazione non lascia tregua e questo, come nella vita con i border collie, è contemporaneamente il miglior pregio ed il peggior difetto.
Mai un attimo di noia, emozione splendida e perfino inusuale nella letteratura contemporanea dove i libri vengono troppo spesso misurati a peso, si arriva alla fine senza aver mai respirato; per questo, è un libro che merita almeno due letture: la mancanza di pause pone il lettore in uno stato di scossa emotiva continua; il rischio è quello di perdere molti passaggi sui quali invece è bello fermarsi, girarli e rigirarli nelle mani come un oggetto prezioso, bello, antico, un oggetto a cui siamo affezionati e al quale guardiamo sempre con rinnovata curiosità, considerata la sua capacità di rivelarci aspetti sempre diversi.

 

Opera verticale
Fin qui, un ottimo libro per ragazzi e non più tali, almeno anagraficamente.
Ma c'è di più, molto di più.
Petrademone, il Libro delle Porte, è un romanzo scritto attraverso una dimensione verticale e questa, nella letteratura contemporanea, sembra una novità, per meglio dire un recupero di tradizioni passate.
Il mondo contemporaneo, e di conseguenza la sua letteratura, è descrivibile attraverso la metafora spaziale della orizzontalità: viviamo di reti, di interconnessioni complesse, di legami inter-soggettivi e del tutto orizzontali, dove provare ad evocare un sopra e un sotto richiama immediatamente alla mente una visione assiologica da condannare senza riserve in omaggio al politicamente e culturalmente corretto; miti e narrazioni contemporanei, come quello della rete, vengono attualmente investiti di un potere senza volto, orizzontale e liquido, perfino un po' melmoso, come quando ai social media vengono rimandati poteri di giudizio etico, oppure quando viene utilizzata la rete per approvare o disapprovare strategie politiche.
L'illuminismo, e la conseguente spinta alla secolarizzazione ed all'egualitarismo, l'annullamento del sacro che viene sostituito dal religioso2, le religioni stesse che sembrano contribuire per rpime al processo di secolarizzazione rinunciando al credo per diventare etica formale, hanno decretato l'abbandono di quella verticalità, celebrata invece dal romanticismo e resa un'icona da Caspar Friedrich nel suo Viandante sul mare di nebbia, dipinto del 1818.
Questo romanzo di Manlio Castagna invece, nel solco del pieno romanticismo, evoca la verticalità di una cattedrale gotica, dove le sue guglie più alte danzano con le nubi ai confini del cielo, mentre la cripta nasconde i segreti più mistici insieme agli ossari ed alle memorie.

Spazio verticale e tempo ciclico
Il romanzo si estende tra i due poli di Petrademone e di Amalantrah.
In alto abbiamo Petrademone, la porta del cielo. In basso un'altra porta conduce ad Amalantrah, mondo ctonio e saturnino. Nel mezzo, o meglio nella tensione dinamica tra l'uno e l'altro polo abbiamo 4 ragazzi e 11 border collie, con funzioni narrative e filosofiche diverse.
Questo libro rinuncia alla scansione temporale discreta, tipica del pensiero calcolante, per organizzarsi attorno ad uno scorrere eracliteo che è possibile cogliere, attraverso un pensiero meditante3, solo con occhi fermi che colgano la compresenza del tutto nel dispiegarsi dell'esperienza.
L'unica concessione al tempo che Manlio Castagna si concede nel suo romanzo, riafferma il carattere ciclico tipico dell'eterna contrapposizione tra il buono, il santo (le tre pomeridiane, l'ora in cui Gesù si è sacrificato per l'umanità) da una parte, il malvagio (le tre del mattino, l'ora del Diavolo) dall'altra.
Chi di noi è preda di insonnia ed angosce notturne sa bene che le tre del mattino sono un'ora terribile, esattamente al centro del mare sconfinato della notte, lontane dalla dolce riva dell'addormentamento da cui siamo partiti ed inesorabilmente lontane dall'approdo del risveglio e della luce del giorno, dai quali ci separa un percorso troppo lungo e tormentato per poter essere sopportato.

La porta verso l'alto
Petrademone sorgeva sulla cima di un monte che permette una vista a 360 gradi. La tenuta in cui è ambientato il romanzo faceva parte delle sue pertinenze. “Tutte le mitologie hanno una montagna sacra, variante più o meno illustre dell'Olimpo. Tutti gli dei celesti hanno luoghi riservati al loro culto, sulle cime. Le valenze simboliche e religiose della montagne sono innumerevoli. Spesso la montagna è considerata punto d'incontro del cielo e della terra, punto per il quale passa l'asse del mondo, regione satura di sacro, luogo ove possono attuarsi passaggi i passaggi tra zone cosmiche diverse”.4
Petrademone trae il suo toponimo dal fatto di essere stata un luogo consacrato a Giove Cacuno, il Giove delle cime, come viene citato nel romanzo. La pietra del demonio sarebbe stata la stele successivamente ritrovata con incisa la epigrafe: Iovis cacuno fecit, quindi considerata dai cristiani pietra celebrativa di un dio pagano, di un demonio.
Ma Petrademone continuò ad essere un luogo sacro, perchè successivamente ospitò un cenobio di frati eremiti.
Durò relativamente pochi anni, circa 350, la Petrademone secolare, caposaldo politico e religioso dell'intero sistema vallivo, castello di guardia ricco, con pertinenze che davano grano e legna abbondanti, con casali e vigneti, castello e 4 chiese, libero comune, luogo ambito e conteso tra l'Abate di Farfa e le nobili famiglie degli Orsini, Savelli, Colonna5.
Il potere distruttivo degli umani appetiti e lo scorrere della storia per il quale non si rendeva più necessario l'incastellamento ed il controllo militare del territorio decretarono nel XV secolo la fine della Petrademone secolare, che fu totalmente cancellata da un altro appetito umano, la necessità di materiale da costruzione bello e pronto, soprattutto gratis.
Fu così che, invece di utilizzare per la costruzione di Canemorto, l'attuale Orvinio, nuove pietre provenienti da una cava, le pietre con le quali Petrademone era stata edificata vennero trasportate in loco, circa 400 metri di altitudine più in basso.
E così Petrademone, depredata ma finalmente de-secolarizzata, fu restituita alla natura e al sacro.
Petrademone, come coglie Manlio Castagna, è quindi tornata ad essere una porta verso l'infinito, verso il cielo, verso Dio, il deiwos indoeuropeo, che significa luminoso, celeste.
E' la porta che varcherà Frida, attraversando il cancello della tenuta, e che la condurrà dal privato del suo dolore alla infinità multiforme ed impensabile che si schiuderà presto alla sua esperienza.

Nella terra di mezzo: i ragazzi
Romanzo di formazione quindi, che ha come protagonisti quattro ragazzi, due maschi e due femmine le quali, per natura generative, concave ed accoglienti, sono capaci di contenere in sé e racchiudere l'esperienza di attraversamento del mare della perdita, per poi trasformarla creativamente.
Perchè è proprio di questo parla Manlio Castagna, e ne parla sia alle giovani generazioni che ai ragazzi tuttora vivi e presenti in noi adulti o vecchi.
Il romanzo quindi affronta apertamente il tema della perdita, con coraggio e trasparenza, ed è questo uno dei suoi grandi valori; nella contemporaneità difficilmente i ragazzi, anagrafici e virtuali, hanno occasione di affrontare ed elaborare il tema della perdita, passaggio che costituisce una pietra miliare dello sviluppo psicologico.
La perdita può essere colta solo nella vertigine della sospensione dell'azione, invece tendiamo oggi a vivere in un tutto pieno, soprattutto i giovani; uso compulsivo del web e dei social media, alcool, droghe, dipendenze di vario genere, dalle dipendenze affettive e relazionali allo shopping compulsivo.
Devices pensati per riempire tutto il tempo e per ottundere ogni forma di angoscia.
Il monoscopio della TV negli anni '60 del secolo scorso ti rinfacciava la tua insonnia, perforandola con quel sibilo assordante ed angosciante. Oggi tutte le TV trasmettono h24. E questo è un bene, un vantaggio cognitivo, esistenziale, come la presenza del web e di tutti i supporti tecnologici, che però spesso vengono convertiti alla funzione di tamponare l'angoscia ed eliminare la vertigine della perdita.
Manlio Castagna ambienta il suo romanzo negli anni '80 del novecento, consapevole della necessità di creare uno spazio vuoto dal quale può fiorire l'invenzione creativa, e come guida esperta ci prende per mano e, attraverso i suoi ragazzi, ci permette di elaborare la vertigine l'angoscia del vuoto e dell'oscuro, nel tentativo di estrarre da lei qualcosa di nuovo, di creativo.
Il compito di Frida e dei suoi giovani amici sarà quello di spiegare, elaborare, dare parole al dolore, affrontare il magro notturno che, non a caso, nel suo essere senza volto evoca la “sofferenza confusa e muta” menzionata dal filosofo Paul Ricoeur.6

Nella terra di mezzo: i cani
I cani, i border collie, che tra i cani sono quelli in assoluto più attaccati ed attenti all'uomo, sono i magnifici protagonisti di questo romanzo.
Mi piace come vengono trattati dall'autore: non banali cani parlanti o umanizzati, rischio del fantasy di serie B, ma cani, anzi, border collie a tutto tondo, colti e descritti nella loro essenza.
Quale?
Umberto Eco, non ricordo dove, diceva che di ciò che non è ancora maturo per essere concettualizzato filosoficamente bisogna narrare.
Sto lavorando da anni ad un tormentato saggio, che spero riuscirà a vedere la luce, sulla filosofia dei linguaggi interspecifici.
Un saggio nel quale voglio prendere in considerazione, osservandola attraverso la lente d'ingrandimento della costruzione dei linguaggi, il rapporto speciale che si è venuto a creare tra uomo e cane, forma di vita straordinaria, unico esempio in natura di un rapporto così stretto e profondo tra specie diverse.
La nota teoria etologica esplicativa del rapporto uomo-cane prende in considerazione solo l'aspetto funzionale ed opportunistico del vicendevole aiuto che le due specie si fornivano nella caccia, fondando il legame, quindi il linguaggio, su un aspetto utilitaristico.
Però, c'è il cane ritrovato nel sito di Bonn-Oberkassel, in Germania.
E' una storia che , ogni volta che la ripercorro, mi commuove.
Una storia che, straordinariamente, si intreccia con quella di Petrademone.
Una sepoltura risalente a 14.200 anni fa, un vecchio uomo di circa 40 anni, una donna ventenne di mezza età ed il loro cane di 7 mesi.
Le analisi dei reperti hanno rivelato che si trattava di un cane dai denti danneggiati, che aveva sofferto di cimurro ed episodi di vomito e diarrea frequenti.
Insomma, un cane che non sarebbe sopravvissuto e che sicuramente non poteva aiutare nella caccia.
Questa sepoltura testimonia delle amorevoli cure attribuite a quel cane, senza le quali non sarebbe potuto sopravvivere fino ai 7 mesi; testimonia anche dell'immenso dolore che quell'uomo e quella donna sperimentarono quando lo persero, tanto che scelsero di restare insieme a lui per l'eternità.
Una vicenda antica, che tuttavia potrebbe essere avvenuta ieri. La ruota fu scoperta circa 10.000 anni dopo, mentre 14.200 anni dopo Steve Jobs inaugurava lo smartphone: da allora è cambiato tutto, ma i sentimenti di quell'uomo e quella donna verso il loro cane sono gli stessi che si potrebbero sperimentare oggi, immutati attraverso il tempo.
Quindi qual'è l'essenza del rapporto uomo-cane? Dopo il mio spezzarmi la schiena su libri, Mac, tablet e smartphone e non aver ancora scritto sul tema, Manlio Castagna butta lì la soluzione, con la sfrontatezza dei bambini che nella loro fresca apertura mentale si possono permettere di dire che il Re è nudo.7
Nel romanzo di Castagna i cani sono guardiani.
Sorvegliano le porte rivolte verso il basso,sorvegliano che da quelle porte non facciano irruzione gli abitanti del mondo ctonio e saturnino di Amalantrah.

La porta verso il basso
Questa è la orrenda porta che ci mette in contatto con la sofferenza senza volto, con il terribile mistero dell'esistenza, con le paure ed i fantasmi più bui che nascono da una natura umana non solo inevitabilmente limitata, ma esplicitamente rivolta (anche) verso il male e la distruzione, come gli psicoanalisti Sigmund Freud e Melanie Klein hanno dimostrato nel loro monumentale lavoro.
I cani ci proteggono dalla irruzione improvvisa del male e della distruttività, e lo fanno in due modi: anzitutto attraverso un amore, un attaccamento incondizionato ed una gioia di vivere che ci trasmettono fino al loro ultimo respiro; poi ci accompagnano nel modo della perdita, con il loro transito breve, troppo breve nella vita accanto a noi, e ci costringono ad assaporarlo e costringono il nostro amore a non morire con loro perchè diventa irrinunciabile avere un guardiano sempre con noi.
La sofferenza non può rimanere fine a sé stessa ed ecco che i cani, da bravi guardiani della porta, morendo ci invitano a non far finire l'amore, a proseguirlo, finchè un nuovo cucciolo busserà, festoso e pieno di amore, all'uscio della nostra casa per assumere le funzioni di guardiano.
Solo allora lo spirito del nostro cane, che è stato e rimarrà unico, potrà finalmente riposare in pace perchè, da angelo che veglierà sempre su di noi, sarà tranquillo e pacificato per le nostre esistenze in quanto fiducioso verso il nuovo guardiano, perchè sa di lasciarci protetti e non da soli ad affrontare le porte del basso.
E potrà andarsene, perchè solo allora, sentendoci rassicurati da un nuovo guardiano, potremo lasciarlo andare via ed al contempo stringere con lui un legame ancora più forte, un legame speciale che supera la materialità e si concretizza attraverso la speranza escatologica del ricongiungimento, liberi da un corpo diventato ingombrante, forse per entrambi.


1Manlio Castagna: Petrademone, il libro delle porte. Mondadori, 2018. Citazione tratta dalla seconda di copertina.
2L'etimo di religione proviene dal latino legere, ovvero raccogliere, riportare a sé. E' il verbo che ben si presta a descrivere lo scrupolo religioso, che con la cristianità diventa dipendenza del fedele da Dio, obbligazione, e viene pertanto a definire un'insieme di pratiche, laddove nell'originale latino citato da Cicerone il significato era più vicino ad una disposizione interiore, al rinnovamento di una scelta. La nozione di sacro si riferisce invece a ciò che è proibito, con cui non si deve avere contatto ed è parimenti animato da potenza. La religione, nel suo senso di insieme di pratiche e di obbligazioni confessionali, prova a dare un volto, a secolarizzare un qualcosa di antecedente e misterioso riferibile al sacro. Vedi: Emile Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee. Volume secondo: potere, diritto, religione. Tr. it. Einaudi, 1976
3Per la differenza tra pensiero calcolante e pensiero meditante vedi: Fabrice Midal, Conferenze di Tokio. Martin Heidegger ed il pensiero buddista.Tr. it. O barra O edizioni, 2013
4Mircea Eliade, Trattato di storia delle religioni. Tr. it. Boringhieri, 1976
5O. Amore, P. Delogu, Insediamenti medievali alle falde dei Lucretili. In: Gilberto De Angelis (a cura di), Monti Lucretili. Parco regionale naturale. Invito alla lettura del territorio. 5a edizione a cura del Comitato promotore parco Naturale Regionale dei Monti Lucretili, 1995
6Paul Ricoeur, Il male. Una sfida alla filosofia ed alla teologia. Tr. it. Morcelliana, 2015
7Hans Christian Andersen, I vestiti nuovi dell'imperatore. In: Tutte le fiabe

domenica 12 marzo 2017

Uomini, ratti e galline dalle uova d'oro. Sperimentazione Animale e sostanze d'abuso


Uomini, ratti e galline dalle uova d'oro.

Sperimentazione Animale e sostanze d'abuso



di Roberto Mucelli1


Il grosso problema della sperimentazione animale è di carattere epistemologico ancor prima che di carattere etico, un problema di filosofia della scienza prima che di bioetica.

Vorrei per il momento saltare tutta la querelle bioetica sul benessere e rispetto della vita animale non umana e considere, a priori ed utilitaristicamente, in via esclusiva gli interessi della specie Homo Sapiens Sapiens.

Nella ricerca sulle sostanza d'abuso si utilizzano ancora protocolli neopositivisti basati su una visione del mondo causa-effetto piuttosto che su una epistemologia della complessità.

Alcuni lavori sperimentali sulle sostanze d'abuso hanno la stessa struttura logica di quelli della microbiologia studiata in vitro, ovvero seguono delle regole morfologico-sintattiche e stilistiche caratteristiche delle letteratura scientifica più diffusa.

Si tende ad isolare dei fattori e a studiarli separatamente dal contesto che li genera, come se non fossero esistite le rivoluzioni nei paradigmi scientifici avvenute sin dai primi anni del secolo scorso.

Qualsiasi risultato provenga da questo tipo di studi sulle sostanze d'abuso è da ritenersi inattendibile ed inapplicabile alla clinica perchè non tiene conto della complessità, della reticolarità e della multidimensionalità logica del fenomeno, come insegna Bertrand Russell2 nella sua teoria dei Tipi Logici poi ripresa da Gregory Bateson3 .

Stiamo parlando di paradigmi scientifici non recenti, originatisi già nella prima metà dello scorso secolo, mentre la ricerca sulle sostanze d'abuso che utilizza la SA si rifà addirittura a paradigmi di tipo illuminista.

Consideriamo un paper, pubblicato sul prestigioso sito del National Institute of Drug Abuse, NIDA, a titolo esemplificativo:

Prefrontal Cortex Stimulation Stops Compulsive Drug Seeking in Rats

Dr. Billy Chen, Dr. Antonello Bonci, and colleagues at the NIDA Intramural Research Program (IRP) in Baltimore, Maryland


L'idea del Dott. Chen e dei suoi colleghi è che la corteccia prefrontale PFC giochi un ruolo determinante nella differenza tra il “semplice” uso di cocaina da una parte e la addiction e l'uso compulsivo dall'altra.

Infatti, solo 1 persona su 5 passa dall' uso all'abuso che comporta addiction e ricerca compulsiva dell'assunzione della sostanza.

Come ben sa chiunque abbia investigato questi fenomeni e chi, come il sottoscritto, ha lavorato per 30 anni con pazienti che utilizzano sostanze d'abuso, il fenomeno va indagato secondo il paradigma della complessità:
  • anzitutto la differenza tra uso e abuso (secondo i criteri del DSM 54) non è un parametro stabile, un orientamento fisso della persona ma può oscillare nel corso della vita, ovvero un individuo può transitare, in momenti diversi dalla condizione di uso a quella di abuso e viceversa;
  • fattori come le condizioni psicosociali, la struttura di personalità, i Modelli Operativi Interni dell'Attaccamento, la concomitanza di psicopatologie sono mediatori importanti e condizionano fortemente gli stili di assunzione;
  • la storia dei trattamenti ricevuti e la qualità/quantità di relazione con i servizi per il trattamento condiziona fortemente i modelli di relazione con la sostanza d'abuso.

Basta aver letto qualcosa di divulgativo sulle Neuroscienze per sapere che eventuali deficit o iperattività funzionale della PFC sono da ascrivere alla plasticità dei sistemi neuronali e quindi alla complessità dell'interazione dell'organismo con il suo ambiente, tranne che si considerino deficit neurologici primari ed importanti come la Sindrome Frontale o disturbi del genere, che comunque sono suscettibili di miglioramenti in condizioni ambientali e relazionali favorevoli.

Già tentare di ascrivere l'orientamento individuale verso l'uso o l'abuso ad una particolare configurazione del funzionamento del PFC rappresenta non solo una operazione di riduzionismo epistemologico, che avrebbe comunque il suo senso, ma una vera e propria mistificazione, laddove, anche volendo ragionare in termini di causa ed effetto, si scambiano gli effetti per le cause e non si tiene conto non solo della complessità psicosociale, ma nemmeno della complessità interna all'organismo considerato limitatamente al suo essere biologico, ovvero non si tiene conto delle interazioni relative a neuromediatori e neuromodulatori ed ai loro rapporti con il sistema endocrino ed immunitario.

Nell'esperimento poi emerge una chiara sottovalutazione della plasticità della risposta dei ratti agli stimoli ambientali.

I ricercatori addestrarono i ratti a premere due leve in successione per ricevere infusioni di cocaina. Premere la prima leva dava accesso alla seconda leva che a sua volta permetteva ai ratti di ricevere la cocaina.

Gli animali compivano sessioni giornaliere di addestramento, nel corso delle quali ricevevano fino a 30 infusioni.

Dopo due mesi i ricercatori aggiunsero una scossa elettrica che colpiva i piedi dei ratti quando abbassavano la prima leva. Nelle intenzioni dei ricercatori la somministrazione della scossa elettrica sarebbe servita a distinguere i ratti che cercavano la droga compulsivamente da quelli che non la cercavano.

Dopo quattro giorni il 30% dei ratti continuava a cercare cocaina nonostante la scossa elettrica ai piedi, mentre l'altro 70% smise di cercare cocaina e si ritirò spavantato sul fondo della gabbia.

La sorprendente e sbrigativa estrapolazione dei ricercatori è stata che il 30% dei ratti che cercavano cocaina aveva un comportamento compulsivo.

Evidentemente i ricercatori non hanno la minima cognizione di come possa funzionare una mente animale, soprattutto di un animale che non è un predatore ma una preda, perciò attentissimo ai pericoli ambientali. Alcune prede (anche i predatori che solo a loro volta prede) presentano una sensibilità agli stimoli ambientali maggiore di altre e perciò tendono ad avere più facilmente reazioni di paura.

Questo avviene anche negli animali umani, tanto che negli studi sulle sostanze d'abuso vengono identificati dei profili detti “risk taking” per cui alcune persone, soprattutto in adolescenza, sono più a rischio di abuso di sostanze proprio per la loro maggiore tendenza di altre a prendersi dei rischi.

Se avessero voluto dare valore all'esperimento avrebbero dovuto utilizzare ratti preventivamente testati sul risk taking ed appartenenti alla stessa categorizzazione, non ratti presi a caso!

I ricercatori poi esaminarono i neuroni nella area pre-limbica della PFC dei ratti, sostenendo che “this area corresponds to the dorsal lateral prefrontal cortex in the human PFC”.
L'assimilazione tout court del cervello di un ratto a quello di un umano rimane per me un'operazione sconcertante, tale è la diversità di umwelt, per citare Von Uexnkull5, tra le due specie.

I neuroni prelimbici dei ratti definiti “compulsivi” erano significativamente meno eccitabili di quelli dei “non compulsivi”, tanto che dovevano essere sottoposti ad una quantità di corrente almeno doppia per generare un potenziale d'azione.

Il dott. Chen da questo deduce che “... in a compulsive rat , the PFC is unable to relay the information that pressing the seek lever is associated with a foot shock, rendering the animal unable to stop itself”.

Peccato che lo stesso Chen deve ammettere che l'uso stesso di cocaina, come è noto, rende i neuroni PFC meno eccitabili, ovvero conduce ad una perdita generale di controllo, e si pone la fatidica domanda: “Which comes first, the deficient PFC or the drug use?” alla quale, nei modelli sperimentali causa-effetto, non è possibile rispondere per la evidente caduta in un vizio di circolarità infinita.

Chen, sorvolando allegramente su problemi epistemologici di non poco conto, rivela poi la sua scoperta.

L'optogenetica utilizza proteine sensibili alla luce per controllare la scarica di neuroni individuali o di piccoli gruppi di neuroni in animali vivi.

Hanno fatto in modo che i neuroni prelimbici dei ratti esprimessero la proteina Chr-2. Esponendo poi questi neuroni, attraverso un impianto di fibra ottica, ad una determinata frequenza di luce, ottennero delle scariche neuronali.

Attivati in questo modo, i neuroni prelimbici della PFC restauravano nei ratti il senso di giudizio ed impedivano che si andassero a prendere la scossa per di ricevere la cocaina.

Questo risultato, indubbiamente affascinante, fu semplicisticamente trasportato a soggetti umani.

In un pilot trial del novembre 2016 Antonello Bonci, Alberto Terraneo, e Luigi Galimberti somministrarono un trattamento di TMS (Transcranial Magnetic Stimulation) a 16 pazienti in una clinica ambulatoriale a Padova.

I 16 pazienti furono studiati per 21 giorni. Al 9 giorno iniziarono i controlli attraverso i campioni di urine, ed il 69% dei pazienti trattati con TMS presentarono esami delle urine negative, contro solo il 19% del gruppo di controllo, trattato con normali ansiolitici ed antidepressivi.

In seguito anche i pazienti del gruppo di controllo furono trattati con TMS, mostrando risultati simili ai pazienti del primo gruppo sperimentale.

I ricercatori mantennero i contatti con la maggior parte dei pazienti coinvolti nello studio.

Riportiamo le parole del Dott. Bonci: ““While this observation is not part of a rigorous clinical trial follow-up, and should be taken cautiously, the majority of patients who achieved abstinence during the stimulation pilot protocol report that they have maintained that abstinence for more than 2 years. During that time, some patients have requested additional TMS therapy once a week, twice a month, or monthly, and patients can always request additional therapy if they experience cravings. Others report that they have maintained abstinence without additional TMS after the initial set of treatments.”

Ed il gioco è fatto, il modo in cui viene condotta la narrazione dei fatti, come insegna Alessandro Baricco6, è fondamentale per l'impressione lasciata nel lettore e nell'ascoltatore.

Il disclaimer iniziale di Bonci è apprezzato e d'obbligo ma, mentre la folla a questo punto osanna al miracolo, ed il miracolo è nato dalla sperimentazione animale, pur dolorosa, ma indispensabile punto di partenza, senza la quale Alessandro Magno non avrebbe potuto conquistare l'Asia minore.

Da persona che tanto ha lavorato tanto con pazienti affetti da dipendenze patologiche e da umile studente di filosofia della scienza non posso non sottolineare il misterioso salto metodologico, la trasposizione tout court dagli animali all'uomo.

Un lettore attento, con un mimino di preparazione e dotato di una base di pensiero riflessivo non darebbe per scontato questo salto narrativo, e andrebbe piuttosto a coltivare un sospetto, che la sperimentazione animale serva non come fatto ma come narrazione, un racconto di presunta efficacia di una determinato trattamento che si può allora sperimentare sull'uomo.

Attenzione, si tratta di un salto narrativo di una certa importanza e di un certo effetto, che predispone il lettore ad accettare la sperimentazione umana, quando dal punto di visto epistemologico, logico e di metodologia della scienza SA ed SU non mostrano legami, se non flebili ed estremamente ipotetici.

Il trionfalismo, appena moderato da un pudico ed ipocrita disclaimer iniziale, sui risultati della sperimentazione umana, sottace molti fattori esaminabili invece all'interno i un paradigma scientifico complesso, non riducibile ad una narrazione del tipo “a trattamento x corrisponde il risultato y.

Nemmeno voglio citare la esiguità del campione, mi si risponderebbe facilmente che si tratta di uno studio pilota.


Ma....

  • Come sono stati selezionati quei 16 pazienti che hanno aderito allo studio tra tutti quelli che afferiscono al servizio? Casualmente? Su base volontaria? Se fossero volontari, come penso sia inevitabile, potrebbero aver risposto i più desiderosi ed i più motivati a curarsi, quelli che maggiormente possono affidarsi con fiducia ad un trattamento nuovo e sperimentale e perciò denotano già un buon rapporto con il personale. Una buona compliance ed una buona relazione sono notoriamente correlati ad un buon outcome, pur se momentaneo.
  • Come estrapolare i risultati agli altri pazienti che afferiscono al servizio e non hanno aderito allo studio ed ancor di più a tutte le persone che usano cocaina nell'area di Padova, in Italia, in Europa, nel Mondo?
  • Come sono stati effettuati i prelievi di urine per attestare la condizione drug free per quanto riguarda la cocaina? Ho personalmente visto ricorrere a veri giochi di prestigio per portare urine “pulite” ma non proprie e così compiacere il personale dei servizi. Ho visto cose che voi umani non potete nemmeno immaginare...
  • Si son testati i pazienti per il drug free da cocaina, ma è stato effettuato il test per altre sostanze d'abuso? Ovvero, siamo sicuri che in quel periodo i pazienti non sono ricorsi ad altre sostanze per sostenere l'astinenza da cocaina?
  • I modelli di assunzione di cocaina e la relativa astinenza sono molto diversi dalla astinenza da eroina ed anche da quella da nicotina e tabacco. Il paziente, anche quello definito compulsivo, può tranquillamente far trascorrere tre settimane da un'assunzione all'altra. Come nello studio. Molti pazienti dalla assunzione compulsiva e dal forte craving possono non sentire il bisogno di assumere cocaina durante le vacanze con la moglie ed i bambini e durante una fase favorevole della psicoterapia. E' un andamento a pousses, diverso da dipendenti da eroina, da tabacco e da THC che necessitano di somministrazioni continue.
  • Nella valutazione dei risultati si è tenuto conto che l'unico fattore collegato con l'outcome dalle sostanze d'abuso è il tempo trascorso in relazione significativa con i servizi (fonte: NIDA)? Perchè in questo caso mi chiederei se la condizione cocain-free (non sappiamo però se assumevano altre droghe o psicofarmaci) più che alla somministrazione di TMS potrebbe essere legata al contatto significativo con persone che fanno ricerca e si prodigano per loro.
Potrei continuare all'infinito con le domande, ma ne faccio grazia, consapevole che non esiste la sperimentazione perfetta, ed anche perchè non me la sto prendendo con quei ricercatori, ma con un modo di pensare e fare scienza.

Infatti, lo sforzo di inserire la sperimentazione all'interno di paradigmi scientifici almeno novecenteschi invece che settecenteschi, se non addirittura baconiani, potrebbe pur essere fatto.

Oggi sulle sostanze d'abuso si fa ricerca utilizzando i metodi informatici delle reti neurali all'interno del paradigma della complessità.

Magari i risultati del lavoro preso in esame sono suggestivi, non me la prendo con i ricercatori, nulla di personale.

Però occorre chiedersi quante risorse economiche vengano indirizzate verso ricerche sostenute da paradigmi oramai obsoleti, nella speranza che si trovi il farmaco o il trattamento miracoloso che poi si rivelerebbe la gallina dalle uova d'oro.

La bufala della mappatura del genoma umano non è stata sufficiente e svegliare gli animi e disincantare verso questo modo di fare ricerca ed informazione scientifica.

La ricerca sulla mappatura del genoma umano ha assorbito più risorse dei programmi spaziali. Speravano di renderci consapevoli di tutte le malattie che avremmo avuto, e di spingerci a curarle in anticipo; senza contare il massiccio ricorso agli ansiolitici ed ai trattamenti psichiatrici che avrebbe comportato la certezza di morire di cancro al tal' organo o al tal' altro entro 10 anni.

Proprio l'interazione con l'ambiente, l'epigenetica e l'estrema complessità dei processi che presiedono allo sviluppo di una malattia ci ha salvato.

Ma la narrazione che girò sul tema fu potente ed evocativa, nessuno includeva in questa narrazione che il DNA non codificante, ovvero il 95% del DNA, veniva definito “Junk DNA”, perchè non sapevano come spiegarlo.

Oggi sappiamo che il DNA non codificante ha un'importante funzione regolativa, dato ceh l'informazione non passa in maniera asimmetrica dal DNA all'RNA ed alle proteine, ma passa anche dalle proteine al DNA, con la funzione di regolare, ovvero silenziare od esprimere pool genetici.

Tutta la bufala della mappatura genetica con la possibilità di prevedere le malattie si basava sullo studio del 5% del DNA. Questo non era incluso nella narrazione dominante.

Con Alessandro Baricco, non mi illudo che esistano fatti separati dalle narrazioni possibili, la realtà è un misto di fatti e narrazioni.

E la mia è una narrazione sulla narrazione dominante, è la voce del bambino, o del pazzo, che urla “il Re è nudo”.

Quando la madre del giovane Guy de Maupassant chiese a Flaubert di insegnare al figlio come si scrive, Flaubert rispose che Guy avrebbe dovuto osservare e descrivere, ad esempio un albero, come se fosse stato il primo uomo sulla Terra a vederlo.

Ed io così voglio vedere la sperimentazione animale, individuando una semplicistica trasposizione ed un salto logico che salterebbe agli occhi di tutti, se esaminassimo il problema per la prima volta e con occhi innocenti.

Insisto nel parlare di ontologia ed epistemologia e non di etica, perchè nella società liquida descritta da Bauman7 sono previste tribù etiche che hanno egual diritto, ma diversa voce in capitolo secondo gli interessi finanziari che riescono ad influenzare.

Quindi con l'etica non se ne viene fuori.

Dobbiamo quindi chiederci se è ontologicamente possibile assimilare animali umani e non umani e se è epistemologicamente appropriato basare la nostra speranza di salute su paradigmi scientifici quanto meno obsoleti e su narrazioni interessate a scovare la pietra filosofale, ovvero trovare il modo di trasformare in oro qualsiasi metallo, perdendo così la complessità dell'esistere.

Per finire, riguardo alla sostanze d'abuso e di quanto sia illusoria o strumentale la riduzione del trattamento ad uno schema organicistico, vorrei citare le parole di Luigi Cancrini8, autorità indiscussa nel campo, scritte nel 1987 ma, purtroppo, ancora valide:
La terapia delle tossicodipendenze è un problema di Psicologia Clinica?
L'assetto dei servizi, la loro gerarchia interna, le indicazioni che vengono dal modo in cui vengono spesi soldi, pubblici e privati, sembrano proporre risposte negative a questo quesito. I giornali sono pieni di notizie relative alla disintossicazione rapida e e ai grandi educatori o a personaggi istrionici che si travestono da grandi educatori.
Nelle facoltà di medicina, il capitolo sulle tossicodipendenze è affrontato, di scorcio, dei programmi di farmacologia. Le famiglie vengono spinte sempre più spesso a organizzare strutture di controllo e la ricerca della droga nelle urine è diventata routine nei laboratori di analisi: si cercavano lì, un tempo, quando le persone erano importanti per il medico di famiglia, le tracce d'albumina, si cercano lì oggi, correntemente, le tracce di tetraidrocannabinolo (nostro figlio ha fumato uno spinello?) o di eroina (sì è fatto? È tossicomane?).
Eppure......
Osservato dal punto di vista di chi conosce il problema, l'insieme delle tendenze elencate qui sopra si propone, in effetti, come il frutto di un malinteso. Di un errore catalogabile sul versante degli imbrogli a parte di chi ci fa soldi (l'industria farmaceutica che produce e vende miliardi di lire di reattivi per l'analisi delle urine e del sangue; medici sprovveduti ma non tanto che continuano a promettere guarigioni basate su interventi di tipo farmacologico); su quello dell'ingenuità da parte di chi i soldi li spende inseguendo fantasie di guarigione o di redenzione; su quello dell'ignoranza (o della mancanza di informazioni utili) dalla parte degli amministratori e dei giornalisti che continuano a negare il problema cruciale del tossicomane e che è appunto un problema di psicologia clinica, e che continuano a saldare il cerchio (a fare da tramite o da mezzani) fa ignoranti furbi e e ignoranti da loro ingannati, fra guaritori e vittime del malinteso.
Un libro come quello che ho il piacere di presentare potrebbe essere importante, mi pare, soprattutto per questo. Portando al centro dell'attenzione la persona (invece delle sostanze) esso consente di fornire informazioni utili in tema di dipendenza e di terapia della dipendenza a tutti quelli che (giornalisti o medici, educatori parenti o teorici) avranno il tempo di leggerlo: consentendo loro di sciogliere (dentro di sé: prima di tutto dentro di sé) il malinteso della cultura in cui ci troviamo immersi su cui si basa, oggi, la complicità sostanziale fra un sistema culturale (antropologicamente: della cultura in cui ci troviamo immersi) e le organizzazioni delinquenziali del narcotraffico.
Organizzazioni cui niente di meglio si potrebbe offrire, per potenziare o mantenere le loro attività, di una prevenzione basata sulla favola di cappuccetto rosso (il bambino che se ne vada solo viene ingannato da lupo che offre droga) e di una terapia basata su quella di Cenerentola (la fata e il principe: un miracolo che viene da fuori liberando la persona da una schiavitù che è esterna a lei).
Duro e paziente, il lavoro dello Psicologo Clinico richiede tutt'altro tipo di impegno o di conoscenza.
Richiede, soprattutto, capacità di cercare e leggere, nel profondo delle persone, la storia del conflitto su cui esse si sono bloccate.
Di riprendere il filo smarrito di un'esistenza sospesa dalla consuetudine della droga.
Come accadeva in un'altra fiaba, quella che si richiamava al sonno senza tempo della bella
addormentata, lavorando per incontrare, dopo averne seguito a lungo le tracce nella selva ricca di rovi e di spini, di buio e di angosce, la persona che ha perso il senso della sua vita. Accompagnandolo fuori dal bosco all'interno di uno sforzo graduale e paziente che è la parte più faticosa della risoluzione (quella da non raccontare ai bambini) e che si chiama comunque, qualunque sia il setting all'interno della quale la si istituisce, psicoterapia. Utilizzando gli strumenti che sono quelli su cui si basano (dovrebbero basarsi) la formazione e la competenza dello Psicologo Clinico.
Di colui che intuisce e poi conosce (avventura che si rinnova ogni volta) i percorsi interni di una scelta e di un blocco, di un bisogno e di una impossibilità nascosta, insieme, dietro una dipendenza da droga.

1Docente a contratto di Modelli Clinici delle Dipendenze presso la Scuola di Specializzazione in Psicologia Clinica della Facoltà di Medicina e Psicologia dell'Università di Roma La Sapienza. Psicoterapeuta ad orientamento psicoanalitico. Studente presso il corso di Laurea in Scienze Filosofiche dell'Università Statale di Macerata. roberto.mucelli@uniroma1.it
2 WITHEHEAD Alfred North, RUSSEL Bertrand, 1950, Principia Mathematica, 2a ed. vol 1 Cambridge University Press, London
3BATESON Gregory, 1972, Steps to an ecology of mind, Chandler Publishing Company; tr. it. Verso un'ecologia della mente, Adelphi, Milano, 1976
4Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, 2013, American Psychiatric Association
5CIMATTI Felice, Filosofia dell'animalità, Laterza, Bari 2013
6BARICCO Alessandro, 2017, Alessandro Magno. Sulla narrazione, Mantova Lectures
7BAUMAN Zygmunt, Modernità liquida, Laterza, Bari, 2006
8 La terapia delle tossicodipendenze è un problema di Psicologia Clinica?
Introduzione di Luigi CANCRINI a Roberto MUCELLI, Guglielmo MASCI (1996): " Tossicodipendenze: curare, guarire, assistere. Lo Psicologo Clinico lavoro " Angeli, Milano.)