venerdì 18 novembre 2011

Lupus Eritematoso Sistemico e Malattie Autoimmuni: una revisione dei modelli di trattamento attraverso la psicologia clinica e la psicoterapia

Nella corso della propria carriera possono, direi devono, avvenire profondi ripensamenti rispetto alla comprensione dei temi vitali portati dai pazienti. Talvolta, a posteriori, si ha perfino la sensazione di dover chiedere scusa per la propria cecità.
E' dal 1997 che non scrivo nulla sul tema della Malattie Autoimmuni e del Lupus Eritematoso Sistemico (LES) pur avendo continuato a seguire pazienti con queste patologie.
Da tempo, sulle ali dell'insoddisfazione e della curiosità, sto ripensando cose scritte anni fa, quando la formazione e la susseguente pratica professionale si basava su paradigmi del sapere scientifico diversi da quelli attuali. Il riduzionismo, il rapporto di causa effetto, il retaggio cartesiano della separazione mente/corpo dettavano il nostro modo di pensare e di agire, mentre negli ultimi anni lasciavano opportunamente spazio al paradigma della complessità, delle interazioni, delle reti.
Nel 1997 pubblicavo con Alessandra De Coro, Professore Ordinario di Psicologia Dinamica a Roma "La Sapienza",  uno scritto dal titolo: “Per un approccio dinamico-relazionale al problema dei disturbi psicosomatici: Il Lupus Eritematoso Sistemico”.
Il termine stesso “psicosomatico” è da considerarsi obsoleto in quanto figlio del riduzionismo che vede la mente come un'entità separata dal corpo, per di più “psicosomatico” per molti pazienti ha l'effetto di comunicare una sorta di loro “responsabilità”, seppur sul piano inconscio, nello svilupparsi e nel perdurare di una malattia.
Le metafore da noi utilizzate per descrivere la situazione dinamico relazionale riscontrata in molti pazienti con il LES sembravano dipingere rapporti ancestrali con madri perfezioniste e rigide, tanto da determinare che i pazienti attaccassero il proprio Sé così come lo aveva percepito attaccato dalla propria "madre". 
Ovviamente erano solo metafore che tentavano di dare spiegazione di fenomeni che osservavo clinicamente nelle pazienti, allora non avevo altre parole per tentare di descrivere ciò che osservavo. Tuttavia i pazienti, non tanto quelli che seguono un percorso psicoterapeutico, dove c'è modo di contestualizzare le affermazioni in una relazione significativa, quanto piuttosto coloro che “leggono” una cosa del genere possono trarre impressioni diverse:
  • La madre non viene pensata come metafora ma identificata con una persona in carne ed ossa, il che diventa fuorviante perchè pensare alla propria madre in questi termini può avere il valore euristico pressochè vicino a quello dell'oroscopo, ovvero nullo, dato che tali affermazioni sono talmente generiche da potersi adattare un po' a tutti;
  • La malattia diventa una responsabilità individuale, tuttalpiù familiare, distribuendo insensatamente rabbia e sensi di colpa tra sé ed i propri cari, nonché rabbia verso lo Psicologo Psicoterapeuta di turno... “Non solo ho una malattia cronica che mi spaventa e mi può devastare ma tu in qualche modo mi fai capire che è colpa mia o di mia madre”.
Una paziente statunitense definì queste metafore cliniche “bedtime stories”, quella donna non saprà mai quanto mi ha aiutato a riflettere.
Ovviamente si tratta di effetti comunicativi non voluti, però sappiamo bene che la comunicazione si misura sul ricevente...
Non a caso il supporto psicologico clinico e psicoterapeutico è ancora sottoutilizzato nel trattamento dei disturbi cronici in generale e delle malattie autoimmuni in particolare, nonostante l'evidenza della letteratura scientifica che delinea come fondamentale un approccio completo ed integrato che si prenda cura delle situazioni di vita del paziente, della quantità e qualità dei tipi di stress a cui la persona è chiamata a far fronte nella gestione della propria vita e della malattia autoimmune e della capacità individuale e della rete affettiva e sociale di gestire e regolare lo stress.
Questa sottoutilizzazione penso sia dovuta in parte all'errato modo di comunicare della comunità psicologico clinica e psicoterapeutica verso i pazienti, in parte all'atteggiamento obsoleto e riduzionista di molti medici curanti che sembrano limitarsi, nel migliore dei casi, a riferire un paziente allo psicologo clinico solo quando si manifestino dei chiari sintomi psicopatologici o comunque una personalità difficile, in una parola pazienti poco gestibili nella ambito delle procedure standard previste dalla liturgia medica: in questi casi il paziente si può sentire “scaricato” e non si rivolge allo psicologo clinico oppure lo fa comprensibilmente carico di rabbia.
Recentemente mi è capitato di accompagnare un familiare stretto in un noto centro specializzato per la cura del LES (per pietà non faccio nomi) ed ancora nel terzo millennio trovarmi di fronte a due specializzande che, come scolarette, ridevano tra loro per un pretesto scemo loro mentre la paziente raccontava la sua storia, salvo poi prendere in mano il dorso della mano della paziente e cominciare a parlare tra loro di questo e quest'altro segno clinico, come se la mano fosse un oggetto a parte dalla sua legittima proprietaria, che in quel momento poteva anche sentirsi angosciata dalla discussione che avveniva sui segni di malattia evidenziati dalla sua mano, come se lei non fosse presente. Nell'intervista clinica non una sola domanda su come la paziente vive, l'alimentazione, l'attività fisica, i fattori di stress, il suo rapporto con la la malattia e la corretta assunzione dei farmaci, solo il solito “come si è manifestata la malattia? cosa prende? e da quanto? ”
I paradigmi scientifici in costante evoluzione ci aiutano a spiegare meglio i fenomeni che abbiamo sempre osservato, nella speranza che questa migliore comprensione possa elevare gli standard di intervento e nello stesso tempo favorire una comunicazione più chiara e più fiduciaria con i pazienti e con le altre figure sanitarie.
L'insoddisfazione per questi modelli esplicativi era ben presente anche nel 2000 quando vedevamo nei pazienti con il LES strutture relazionali che differivano da quelli di pazienti senza patologie ma anche da pazienti con depressione  (Mucelli ed altri: Prototipi relazionali, modelli di attaccamento e funzione autoregolativa del sé in patologie autoimmuni. IV Congresso Italiano Psicologia della salute Orvieto, 21-23 Settembre 2000)
Oggi sappiamo che il sistema immunitario (SI) è collegato in rete con il sistema nervoso (SN) ed il sistema endocrino (SE), fino a costituire un unico sistema biologico operante in interazione con l'ambiente (F. Bottaccioli, Mutamenti nelle basi delle scienze, Ed. Tecniche Nuove, 2011).
Sulle cellule immunitarie sono collocati recettori per le principali molecole prodotte dal cervello, mentre la cellula immunitaria stessa produce peptidi neuroendocrini, ciò significa che SI, SN ed SE comunicano tra loro utilizzando un complesso sistema di segnali veicolati attraverso delle molecole che condividono.
Dedicandomi sin dalla fine degli anni '70 del secolo scorso allo studio della psicosomatica, come allora chiamavamo la disciplina che oggi può essere meglio definita come psiconeuroendocrinoimmunologia, o meglio il suo acronimo PNEI, da subito provai insoddisfazione per le spiegazioni causali, ovvero la mente che causa effetti nel corpo oppure il corpo che causa effetti nella mente. Le conseguenze per il trattamento erano importanti, perchè non si sapeva se indirizzare maggiormente gli aspetti di personalità e dinamico relazionali oppure gli aspetti di reazione ad una malattia cronica infida e potenzialmente invalidante come il LES. Ovviamente dal punto di vista clinico erano validi entrambi gli aspetti, da affiancare in un gioco di figura/sfondo seguendo le esigenze primarie dei pazienti, però il modello esplicativo rimaneva insoddisfacente.
Oggi sappiamo di vedere gli stessi fenomeni con occhiali diversi, quelli della psicologia clinica e quelli dell'immunologia. Proprio lo studio delle malattie autoimmuni ha aperto la porta a mettere in dubbio la netta dicotomia tra Sé e non Sé. 
Il Danger Model (The Danger Model: a renewed sense of self. Pubblicato in Science, 296, 301-305, 2002) prevede infatti che “le cellule addette alla presentazione dell'antigene, per poter attivare la risposta immunitaria, debbono essere co-stimolate da segnali cellulari di pericolo endogeni, emessi cioè da un contesto circostante che indichi la presenza, ad esempio, di cellule stressate, danneggiate o infette. Tale modello ipotizza un processo discriminatorio in cui il concetto di “estraneità” dei costituenti non è più la conditio sine qua non dell'attivazione della risposta immune”.
E ancora, “quasi tutti i peptidi umani possiedono motivi batterici potenzialmente immunogenici"  (F. Bottacioli, ibidem). E' difficile che in una proteina umana non siano presenti elementi batterici, ciò nonostante le proteine non vengono attaccate dal SI, e questo mette in crisi la distinzione netta tra sé e non sé.
Se è vero che il SI non attacca sempre, ma solo a certe condizioni, le cellule riconosciute come estranee all'organismo,  è vero d'altra parte che può attaccare anche cellule del Sé non solo in condizione di malattia autoimmune: l'attacco anticorpale infatti è diretto anche verso le cellule del Sé  danneggiate e stressate, come abbiamo visto nel “Danger Model”, ma quest'attacco può avvenire anche nell'ambito di normali e fisiologici sistemi di autoregolazione, mediati dai complessi scambi di segnali, quasi “linguistici” , che avvengono tra le differenti componenti del SI.
Niels Jerne, immunologo e premio Nobel per la medicina 1984, parla di “grammatica” del sistema Immunitario per descriverne la complessità di funzionamento e la capacità di apprendere del SI, un vero e proprio sistema cognitivo che secondo Jerne, funzionava in totale separazione dal cervello. Oggi invece sappiamo come dicevo sopra, che SI e SN sono in continua interazione attraverso recettori e sostanze neurormonali.
Niels Jerne nelle sue ricerche ha dimostrato come una molecola anticorpale possa essere riconosciuta essa stessa come un antigene da altri anticorpi, detti auto-anticorpi idiotipi. In altre parole, l'antigene, viene ricopiato dal nostro SI, gli auto-anticorpi idiotipi (idiotipi= Idios, proprio typus= tipo, esemplare, sta ad indicare autoanticorpi “somiglianti” all'antigene) ne costituirebbero una sorta di specchio, in maniera tale da tenere pronto un attacco verso di esso.
Attraverso la produzione di autoanticorpi secondo Jerne si mantiene un equilibrio dinamico del sistema immunitario, pronto ad intervenire contro agenti esterni come proteine, virus o batteri mentre mantiene un “precario equilibrio verso gli altri normali costituenti del Sé del nostro corpo” (The generative grammar of the immune system, Nobel Lecture, 8 December 1984 ).
Rimane ancora oggetto d'indagine come questo “equilibrio precario” si disregoli nella malattia autoimmune, come l'attacco di autoanticorpi verso i componenti dell'organismo stesso diventi sistematico, non reversibile come invece sono i normali fenomeni autoimmuni che, viceversa, contribuiscono alla regolazione e alla generatività della varietà di anticorpi di cui abbiamo bisogno.
In merito esistono delle fondate ipotesi cliniche, come quelle del carico “allostatico”, ovvero la condizione in cui l'organismo (SI, SN ed SE) devono rispondere ad una cronica situazione di stress. In questo caso la risposta sistemica dell'organismo, nata per fronteggiare uno stress acuto, nel far fronte allo stress cronico può gravemente disregolare il proprio funzionamento, dando luogo a fenomeni infiammatori, malattie autoimmuni, depressione.
Ecco quindi che ciò che definivamo “madre perfezionista e richiedente” null'altro era che un rozza metafora del complesso carico allostatico deteminato da: alimentazione inappropriata, allergie, infezioni, inquinanti ambientali, fumo ed altri agenti intossicanti, assunzione inappropriata di farmaci ormonali, stress situazionale, stress cronico, difficoltà di far fronte alla proprie aspettative, difficoltà di far fronte ai compiti assegnati dall'esterno (lavoro, gestione delle relazioni affettive, fasi vitali critiche, traumi).
La psicoterapia interviene nella mediazione di questi fattori ed aumenta la capacità dell'individuo di farvi fronte, con importati effetti sul sistema nervoso, immunitario ed endocrino.
Torneremo sul tema del carico allostatico, del ruolo dell'infiammazione nelle malattie croniche e sul funzionamento della psicoterapia ...































1 commento:

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