giovedì 31 marzo 2011

Storia di una nevrosi ossessiva

Eraldo era seduto sulla panchina, composto e riservato come al solito. Con una mano si aggiusta i capelli che iniziano ad essere ricoperti da qualche filo bianco, con l'altra mano tiene stretto il manico del suo borsone scuro, pronto a sollevarlo per saltare sul treno. L'aria umida e nebbiosa fa risaltare gli odori dell'erba che oramai cresce disordinata tra i binari, mentre l'orologio della stazione segna le 12.23. Le lancette hanno sempre la stessa posizione, come due amanti dubbiosi che non riescono ad avvicinarsi più di così ma nemmeno ad allontanarsi. Le lancette si guardano immobili da quando l'orologio ha cessato di vivere, con il vetro rotto testimone del tempo che non scorre. Nel piccolo ufficio del capostazione le carte svolazzano comandate solo dal vento e non più dalle sue mani ordinate. Sulla scrivania un giornale ingiallito del 31 marzo 1971. Eraldo aveva sei mesi quando il padre morì. Cresciuto con una mamma bambina da accudire, ha sempre atteso un padre con cui rafforzarsi facendo la lotta, un padre che gli facesse da specchio della sua identità maschile e lo incoraggiasse ad intraprendere, consentisse la crescita della sua autostima stimolandolo a provare le sua abilità dapprima in un ambiente protetto, per poi esporsi al mondo. Eraldo attende che il treno destinato a portargli questo padre passi sul binario, attende da 40 anni che a lui devono essere sembrati un giorno. 
Questa stazione abbandonata e fantasma è il simbolo della nevrosi ossessiva che avvolge e protegge Eraldo, che per esporsi al mondo vuole prima incontrare un padre che formi le sue capacità di affrontare le cose. Nel frattempo si protegge attraverso i mille dubbi che si formano nella sua mente ogni volta che deve effettuare un scelta, attraverso il controllo maniacale che filtra tutte le sue azioni, idee, relazioni, con il risultato di rimanere bloccato ed inane ma, nella sua fantasia, protetto dalle possibili conseguenze negative dell'esposizione al mondo. Eraldo vive ma non ama, vive ma non lavora, vive ma non gioisce, vive ma non piange, vive ed aspetta. Aspetta che passi il treno che gli porti il papà della sua infanzia, un treno su cui finalmente saltare felice. Il tempo all'interno della stazione è fermo, fuori scorre freneticamente, le cose cambiano, evolvono, Eraldo ne ha sentore, più passa il tempo più il mondo che sta fuori gli diventa estraneo e terrificante. Qualcuno lo deve mettere in contatto con la possibilità che quel treno non passi mai e che, attraversato il lutto e fattosi meno lancinante il dolore della perdita, lui potrà iniziare ad affacciarsi fuori dalla stazione, in un mondo inizialmente terrificante ma nel quale potrà trovare le forza di crescere, potrà trovare le delusioni, la competizione, l'offesa così come l'amicizia, l'amore, la natura, tessendo una relazione che piano piano possa vitalizzare un intrapsichico coartato e considerato, in maniera auto riflessiva, privo di mezzi e poco attraente per gli altri. Questo delicato compito tocca al suo psicoterapeuta, che dovrà essere paziente e delicato, potrebbero volerci anni per mettere Eraldo a contatto con questa realtà, nello stesso tempo curioso e determinato a compiere questo viaggio inseme al paziente, accompagnandolo in luoghi della mente unici ed irripetibili. Nemmeno alla psicoterapeuta è dato di conoscere in anticipo questi luoghi, li vede per la prima volta mentre li esplora con il paziente. Viceversa lo psicoterapeuta ha dalla sua parte il saper viaggiare, è un viaggiatore esperto che ha percorso chilometri e chilometri in luoghi della mente sconosciuti ed inattesi, con tante persone diverse, così ha imparato il piacere e la tecnica del viaggio, ha imparato ad affrontare imprevisti ed aiutare il paziente a cavarsela durante i percorsi.

domenica 13 marzo 2011

Le storie del centro notturno di pronta accoglienza per persone tossicodipendenti

Le storie riportate hanno diversi aspetti in comune e consentono qualche riflessione.
Inizialmente prenderei in considerazione alcuni aspetti relativi all’utenza. Non si tratta solo di ospiti coinvolti con l’uso di sostanze stupefacenti, ma portatori di ulteriore disagio, si tratta infatti di persone che hanno interrotto più o meno recentemente e più o meno definitivamente il rapporto con figure significative. Non ci sono genitori, non ci sono amici, non ci sono parenti, non sembra nessuno, spesso nemmeno i servizi, disposto ad accoglierli. Quasi tutti i centri notturni di Roma non accolgono persone tossicodipendenti ed alcuni di quelli deputati a farlo pongono dei veti su alcuni. 
E’proprio qui, in centri come questo, che ci si rende conto che quando si tocca il fondo c’è sempre qualcuno che bussa da sotto. 
Nella notte, che sembra portare con sé il luogo da cui non è possibile fuggire, le persone, distanti solo qualche attimo dall’ultima dose assunta, si aprono al dolore, al bisogno ed alla domanda di aiuto. Ed allora la richiesta di un posto letto si configura come un’emergenza di un tutto che nasconde e palesa situazioni molto complesse, gravi. Insomma il papà che si coinvolge sino a portare la dose al figlio, il malato di AIDS, il giovane che nella notte si aggira con un coltello, quello che delira, sono tutti portatori di richieste che, sebbene celate all’interno di comunicazioni assurde o di monotone ripetizioni di messaggi non verbali sulla relazione, vanno al di là di quella legata alla erogazione di un’ospitalità, di un pasto caldo o della possibilità di lavarsi. Consegue il notevole coinvolgimento umano e impegno professionale richiesto all’operatore, che non può sottrarsi al confronto continuo con gli aspetti più duri della vita, il dolore, la malattia, la morte, e con richieste sempre più forti, sempre più pressanti sino a connotarsi come urgenze. Si tratta per l’operatore di contattare situazioni dal forte impatto emotivo e si tratta soprattutto di salvaguardarsi e di orientare i propri vissuti in un progetto di intervento dotato di senso ovvero un’azione che, tenendo conto delle risorse dell’ospite, dell’operatore e dei servizi esistenti, persegua obiettivi possibili. Infatti è necessario assicurare all’utenza un’azione assistenziale, una risposta concreta  che soddisfi i bisogni primari e riduca nel contempo i rischi socio-sanitari impliciti nel vagabondare notturno, ma anche un’azione di decodifica della domanda con conseguente organizzazione di risposta adeguata. Ciò è assicurato dall’azione di supervisione, necessaria per qualsiasi lavoro che implica l’analisi di una relazione ed assolutamente imprescindibile per servizi di frontiera come il centro notturno di Magliana ’80.